Di sé diceva che sapeva come fare film in poco tempo e con pochi soldi, e che per questo non aveva troppo bisogno di aiuto. Una scelta affermata negli anni in almeno trenta regie e mai tradita, e che questo suo allenamento alla resistenza fosse anche obbligato non ha mai sminuito la sua capacità di adattamento. È vero che il sistema produttivo non lo ha mai facilitato: è suo il record di rifiuti consecutivi all’Avance sur recettes (il principale sistema di finanziamento del cinema d’autore), ed è per questo che è stato rapidamente costretto a auto-prodursi e a auto-distribuirsi.
Ma il suo essere indipendente Paul Vecchiali prima che una questione di mezzi lo aveva reso cifra poetica e politica contro le mode, gli ammiccamenti dei tempi per seguire invece desideri, passioni, il suo personalissimo sentimento di irriverenza e quell’amore per il cinema che non si è mai assopito. E che gli permetteva di mischiare nelle sue storie tutti i generi inventando nuove estetiche in cui il romanticismo più esasperato di amori impossibili o l’intensità sensuale dei corpi che abitavano le sue immagini si facevano sempre visione politica. Lontano dalle «formule» di sistema e senza mai replicare ciò che aveva fatto in precedenza, nel segno di un artigianato e di una invenzione scanzonatissima la cui ispirazione è già nei primi film e, soprattutto, nell’esperienza di Diagonale, la società di produzione che aveva fondato nel 1977 insieme a Jean-Claude Biette, Jean-Claude Guiguet, Marie-Claude Treilhou. La chiamavano la «post-Nouvelle Vague» anche se nessuno di loro era «contro» – Vecchiali raccontava (a «Libération») di amare moltissimo per esempio Chabrol.
Paul Vecchiali è morto ieri a 92 anni. Era nato a Ajaccio il 28 aprile del 1930, cresciuto a Tolone. Amava dire che aveva scoperto il cinema quando aveva sei anni, conquistato dal dramma storico Mayerling (1936) di Anatole Litvak e prima ancora dalla sua protagonista, Danielle Darrieux, per la quale perde la testa e con cui lavorerà, molti anni dopo, nel suo film En haut des marches (1989) dove l’attrice interpreta il ruolo della madre di Vecchiali in una sorta di (ri)messa in scena di quell’incontro. Come molti cineasti della sua generazione è passato attraverso la critica del cinema e per la redazione dei «Cahiers du Cinéma» di cui era stato assiduo lettore (mentre era in Algeria). Scrive di Demy, Bresson, Peckinpah, Godard. Ma i suoi temi sono decisamente controcorrente rispetto al giovanilismo dei suoi compagni di strada. Il suo primo film, Les petites Drames girato nel 1961 è andato perduto. Il successivo corto Les Roses de la vie racconta la storia di una nonnetta che decide di rivedere la casa dove ha vissuto tempo addietro.

Corps à coeur» (1979)

QUELLO che stupisce è appunto la sua capacità produttiva e la sua regolarità, circa un film l’anno, dalla metà degli anni sessanta al 2022, con Pas… de quartier – un melò antifascista in un cabaret di travestiti – Vecchiali non ha mai smesso di far sentire la sua voce. Una carriera sfaccettata la sua, che ha spaziato dal cinema, al teatro, alla serie televisiva attraversando tutti i generi e tutte le formule produttive.
A affermarlo è soprattutto un film: Femmes femmes (1974), struggente, melodrammatico, modernissimo esempio di teatro/cinema da camera con Hélène Surgère, la sua diva. Il successo critico di Femmes femmes (di cui c’è una eco nel Salò di Pasolini, che ne era un grande estimatore) ha fatto sì che il suo nome sia associato al dramma. Ma il suo precedente film, L’Etrangleur (Lo strangolatore, 1970), è uno strano thriller psicologico e notturno (con Jacques Perrin) tra le prostitute e l’universo dei sobborghi di Parigi. In Change pas de main (1975) sperimenta invece un incrocio tra il fantastico, l’erotico, il poliziesco, invertendo la divisione tradizionale tra i ruoli maschili e femminili. Mentre la serie Les Jurés de l’ombre (sette episodi, diffusa nel 1989) è un polar d’azione.
Come Godard, che «adorava», anche Vecchiali ha spesso accettato film su commissione. Non film prestigiosi, con la nota formula: un best seller, una star e un grande budget, piuttosto delle produzioni anomale, che però accettava volentieri non per masochismo ma come una sfida artistica che lo obbligava a pensare ogni film come un oggetto a se stante, da creare radicalmente dalle fondamenta alla maniera di un architetto, considerando come un tutto sia gli elementi imposti dalle circostanze materiali e fisiche sia quelli di pura creatività artistica.
Era stato ottimo un produttore esecutivo per Jean-Marie Straub, Marguerite Duras e in particolare dei primi due film di Jean Eustache: Les Mauvaises fréquentations (1964) e Le Père Noël a les yeux bleus (1966). La complicità con Eustache, che come lui ha sempre lottato per fare i propri film, era anche un’affinità d’animo. In entrambi vive una curiosa mescolanza di uno spirito per certi aspetti conservatore e modernissimo per altri.

NEL PROGRAMMARE le riprese, Vecchiali aveva un rigore quasi matematico, che in molti casi lo ha portato a scontrarsi con imprevisti non compresi nelle sue formule ultra ergonomiche. Ma era anche capace di mandare tutto all’aria. A questo proposito, il cineasta Serge Bozon racconta un aneddoto legato alla produzione del film Simone Barbès ou la vertu. C’era bisogno di una bella macchina. Vecchiali, produttore esecutivo, era riuscito a trovarne una gratis, una Renault. Ma la cineasta Marie Claude Treilhou insisteva per una Volvo. Vecchiali all’inizio si era detto: «Ecco un capriccio assurdo, su una produzione già ristrettissima». Poi, parlando con la cineasta, ha notato che c’era al contrario qualche ragione intima per volere quella macchina; senza indugi, l’ha accontentata.
Con il gruppo di Diagonale, Vecchiali poteva produrre anche due film allo stesso tempo, uno per sé (La Machine) e uno per Jean-Claude Biette

Una scena da «Once More – Encore» (1988)

(Le Théâtre des matières), più o meno con la stessa équipe, più o meno con gli stessi attori. E più o meno con la stessa storia! Questo gruppo, questa «rete» di amici e complici i cui progetti nascevano anche da esperienze personali aveva infatti lanciato la scommessa di un’utopia, di un fare cinema come gesto collettivo – partecipando gli uni ai film degli altri per garantire all’opera la libertà che poteva essere messa a rischio dalle dinamiche di mercato. E così che si confrontano con il loro tempo, che ne intuiscono prima che avvengano le trasformazioni, il passaggio dagli anni Settanta agli Ottanta, il bisogno di dare voce ai conflitti, alla solitudine, alla più profonda fisicità.

«UN FILM sull’amore e sulla paura di amare» definiva Vecchiali Once More – Encore (1988), commedia musicale e concentrato di vita in dieci piani sequenza, che nell’amore impossibile – ma «per sempre» – del protagonista per il suo primo amante riesce a parlare dell’aids, per la prima volta, senza retorica, nel flusso appunto della vita – la rivista «Filmcritica» lo premiò col Bastone bianco, era stato presentato alla Mostra di Venezia, e col regista mantenne un legame specialissimo. Con Vecchiali se ne va uno degli ultimi cineasti europei della generazione che ha inventato la modernità. Un concetto molto sfaccettato e non univoco del quale è stato un interprete tra i più fantasiosi e estroversi. Molti suoi compagni di strada si sono normalizzati, lui è rimasto indefinibile fino alla fine.