L’assedio di Ramstein. Gli Stati uniti e i nove paesi del «Patto di Tallinn» contro la Germania che si ostina a negare il nulla-osta per la consegna dei Leopard a Kiev. Anche se in teoria «Berlino non è sola» e lo stallo politico sull’invio dei carri armati a Volodymyr Zelensky si deve essenzialmente alla «mancanza di un’opinione unitaria» fra i paesi del Gruppo di Contatto sull’Ucraina, come ha rivelato Boris Pistorius, ministro della difesa del governo Scholz, in carica da due giorni. Senza contare il nodo dei tempi tecnici certificato dal costruttore Rheinmetall: i panzer tedeschi non sarebbero comunque pronti prima di fine anno.

Lo sa perfettamente il segretario della difesa Usa, Lloyd Austin, inviato da Biden a presiedere il terzo vertice Nato nella base aerea della Renania-Palatinato con il preciso compito di convincere gli alleati a «non cedere nel momento decisivo» dello scontro con Mosca.

«IL POPOLO UCRAINO ci osserva. Il Cremlino ci scruta. La Storia ci guarda. Non c’è alcun dubbio che sosterremo lo sforzo di autodifesa dell’Ucraina per tutto il tempo necessario», ha riassunto l’ex generale dell’Us Army incaricato di sincronizzare l’orologio dei rappresentanti dei 40 Stati invitati a Ramstein con il timing Nato.

Con o senza la licenza di esportazione dei tank della recalcitrante Germania, precisa il premier polacco Mateusz Morawiecki poco prima dell’apertura del vertice, minacciando di spedire i propri Leopard a Kiev senza il permesso di Scholz: «L’approvazione di Berlino? Secondaria».

Coincide con la linea tracciata da Regno unito, Paesi bassi, Danimarca, Estonia, Lettonia, Lituania, Repubblica Ceca e Slovacchia: insieme alla Polonia ieri hanno firmato il documento congiunto per mettere il booster all’iniezione di armi dell’Ucraina. Intitolato «il patto di Tallinn», è l’impegno nero su bianco a «perseguire collettivamente la consegna all’esercito di Kiev di dotazioni senza precedenti, tra cui carri armati, artiglieria pesante, sistemi di difesa aerea, munizioni e veicoli da combattimento per la fanteria».

Di fatto vorrebbe dire dare luce verde all’intera lista della spesa presentata dallo stato maggiore ucraino, ma serve soprattutto come «invito agli altri paesi Nato ad affrettarsi nell’invio dei propri pacchetti di forniture militari».

L’ENNESIMO APPELLO a fare presto. Mentre dal vertice di Ramstein, dopo l’intervento dei leader politici, esce la previsione che nessuno vuole sentire, riassunta senza fronzoli dal generale Mark Milley, capo dello stato maggiore Usa: il numero uno delle forze armate americane dopo il presidente Biden.

«Per l’Ucraina sarà molto, molto difficile riuscire a scacciare via militarmente l’esercito russo da tutto il territorio occupato, Anche se ciò non significa che non possa accadere». Secondo Milley le armi dei paesi occidentali servono a consolidare il fronte difensivo, al massimo per condurre «un’offensiva tattica» che liberi la maggior parte degli oblast in mano russa.

Così è la guerra di attrito squadernata dagli ospiti di Ramstein, tra cui anche il ministro della difesa italiano, Guido Crosetto che ieri ha confermato al segretario Nato, Jens Stoltenberg, e all’omologo ucraino la sesta tranche di aiuti militari all’Ucraina. Anche che il governo Meloni è politicamente pronto a moltiplicare gli sforzi in vista della «probabile imminente escalation del conflitto».

«Oggi non abbiamo concluso nulla di definitivo. Abbiamo discusso della possibile consegna dei Leopard al presidente Zelensky. Ci sono buone ragioni per farlo, altre contrarie. In ogni caso la sensazione che l’ostacolo sia la Germania è profondamente sbagliata», puntualizza il ministro Pistorius.

DALLA SUA PARTE ci sono tempi tecnici poco compatibili con i piani di controffensiva a breve. Austin, Scholz e Zelensky sono consapevoli che per addestrare al lancio il personale di una batteria Patriot (come quella chiesta dagli Usa a Berlino) ci vogliono più di 12 settimane; il corso di manutenzione ne dura 50.

Anche per questo Pistorius nel faccia a faccia con Austin 24 ore prima del vertice di Ramstein ha spiegato che finché gli Usa non consegnano agli ucraini i loro Abrams, il governo Scholz non sbloccherà l’export dei Leopard in servizio nei vari eserciti: dalla Finlandia alla Polonia.

Una specie di «sciopero» al diktat di Washington. Mentre quello vero, fuori dalla base di Ramstein, ieri lo fanno i 250 dipendenti civili che hanno incrociato le braccia per protestare per il mancato aumento del salario da parte del «padrone» Nato.