Dallo stupro al malinteso. Si è concluso domenica con un patteggiamento il caso di Richard Liu, l’ex Ceo del colosso dell’e-commerce cinese JD, accusato di aggressione sessuale nel 2018 dopo una serata alcolica a Minneapolis. Lunedì si sarebbe dovuto tenere il processo in Minnesota, ma il legale della ragazza che ha sporto la denuncia ha confermato che le due parti hanno deciso di «mettere da parte le loro differenze» per evitare ulteriori sofferenze. «L’incidente tra Miss Jingyao Liu e Mr Richard Liu ha provocato un malinteso che ha attratto una notevole attenzione pubblica e ha causato profonde sofferenze a entrambe le parti e le loro famiglie», recita il comunicato rilasciato congiuntamente dall’accusa e dalla difesa.

L’episodio risale all’agosto 2018, quando – secondo la ragazza – l’imprenditore l’avrebbe costretta ad avere rapporti dopo una cena, approfittando della sua scarsa lucidità. L’uomo è stato trattenuto dalla polizia il 31 agosto, ma rilasciato il giorno dopo per mancanza di prove. Anche una volta tornato in Cina, il tycoon non ha mai smesso di sostenere la propria innocenza, definendo il rapporto «consensuale». La ragazza, al contrario, ha rilasciato testimonianze discordanti, adducendo la confusione da una parte all’elevato tasso alcolico di quella sera. Dall’altra alle pressioni subite dai familiari in Cina. Vedendo respinte le accuse penali, nel 2019 Liu ha intentato una causa civile per risarcimento. Poi domenica è giunta la notizia dell’accordo. «Non sono arrivata alla fine, ma era tutto ciò che potevo fare», si è giustificata la ragazza.

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IL CASO HA AVUTO un’ampia risonanza in Cina. Non solo per il prestigio dell’accusato. Il movimento #MeToo era parso finalmente trovare giustizia dopo la lunga serie di denunce rimaste inascoltate in patria. Negli ultimi anni il governo cinese ha mantenuto un atteggiamento ondivago nei confronti delle molestie sessuali. Mentre sono state annunciate misure a tutela delle vittime, la radicata visione patriarcale e gerarchica della società cinese continua spesso a proteggere gli aggressori. Specie quando si tratta di uomini potenti come Liu. Il controllo politico sugli organi giudiziari e sull’informazione scoraggia le denunce. Resta ancora irrisolta la vicenda che ha coinvolto Peng Shuai, la tennista sparita dalla circolazione dopo aver accusato l’ex vicepremier Zhang Gaoli di averla costretta a fare sesso.

Anche quando si prende in considerazione l’opinione pubblica, quello delle violenze sessuali resta un tema divisivo in Cina, dove il femminismo viene da alcuni considerato una deriva della democrazia occidentale e una minaccia per l’armonia sociale. I termini dell’accordo tra i due Liu non sono noti. Ma l’inaspettata risoluzione del caso, dopo quattro anni di battaglia legale, ha suscitato reazioni discordanti sui social. Molti hanno lodato il coraggio di Jingyao per aver rimarcato il disagio sperimentato da molte donne cinesi in situazioni di convivialità maschile, quando declinare un bicchiere di vino risulta scortese. Ma non sono mancate nemmeno le critiche di chi ha accusato la ragazza di aver inscenato lo stupro solo per soldi.

AL NETTO dei giudizi contrastanti, un dato sembra incontestabile: l’elevata trasparenza, l’accessibilità degli atti e delle udienze – sebbene solo da remoto – ha permesso a cittadini e media cinesi di seguire il caso come mai sarebbe stato possibile in Cina.