Su il manifesto dello scorso 27 dicembre Massimo Serafini e Marina Turi parlano a ragione della disinformazione sulle recenti elezioni politiche spagnole. Vale a dire il superficiale parallelismo tra Podemos e i cosiddetti fenomeni populisti. Tra l’altro, sotto la citata categoria del populismo albergano esperienze assai diverse tra di loro e fa comodo assimilarle e confonderle. Non solo. Della consultazione iberica non si è colta la novità più interessante quanto al rapporto tra media e politica, sempiterno argomento di discussione. In breve: Podemos ha avuto una significativa affermazione malgrado tutto, soprattutto grazie all’uso intelligente dei social network.

Facciamo un passo indietro. La legislazione spagnola, a partire dall’articolo 20, comma 3, della Costituzione del 1978 e dalla specifica Ley del giugno 2006, prevede una par condicio piuttosto blanda. Contempla sì programmi autogestiti gratuiti. Ma premia partiti e coalizioni già presenti nelle assemblee, a scapito dei potenziali entranti o di coloro che hanno raccolto una percentuale inferiore al 5%. Con una forbice tra 10 e 45 minuti. Inoltre, nel tempo l’organismo preposto – la Giunta elettorale – ha pensato di bilanciare la garanzia del pluralismo con le autonome scelte editoriali. Il risultato è che non esiste alcun obbligo per le emittenti (al servizio pubblico Rtve si sono aggiunte via via varie stazioni private) di prevedere dibattiti o interviste.
Naturalmente, la televisione non si è fatta sfuggire l’opportunità di parlare delle elezioni. Tuttavia, la fragilità normativa non ha impedito all’ente statale di attribuire spazi decisamente esigui alla temutissima formazione di Podemos, pochi alla centrista e pure “fresca” Ciudadanos, praticamente nulla alla “vecchia” Izquierda Unida. Nella evidente speranza di assecondare il tradizionale bipolarismo di Psoe e Partido popular.

Non è andata così, come è noto, e il governo del premier Rajoy ha perso, mentre Pablo Iglesias ha quasi raggiunto i socialisti di Pedro Sanchez. Nonostante la televisione pubblica. E un po’ grazie ad una delle antenne private. Non la gemella di Canale 5, Telecinco. Bensì la Sexta che, al contrario, ha accolto con benevolenza quantitativa le new entry. Forse solo per motivi di audience, tuttavia Pablo Iglesias lì ha avuto modo di valorizzare un’indole comunicativa forte e naturalmente mediale. Anzi. I talk italiani farebbero bene a valutare l’efficacia genuina de «La piazza domanda», incontro dei candidati con i cittadini. Discussione, non rodeo. Modello semplice e utile, di grande successo.

Però, la formula magica di Podemos è stata la rete, vero protagonista dell’ascesa del gruppo. Una rete non usata come bacheca elettronica, secondo l’abitudine del ceto politico cresciuto nell’habitat analogico che si porta appresso quasi inesorabilmente il calco originario. No. La rete come effettivo luogo social, strumento di condivisione e di dialogo in tempo reale.

In fondo, ma avvalendosi di un blog decisamente avviato, è stato così per il MoVimento 5Stelle. In Spagna, però, ha il network ha contribuito a irrompere nella vecchia comunicazione politica, prefigurando il futuro prossimo venturo. Insomma, la televisione continua a essere potente e prepotente, ma i linguaggi sono già cambiati, e lo schermo rigonfio di bardature non riesce a darne rappresentazione.

Quindi, il voto spagnolo ci offre materiali di assoluto interesse. Guai a sottovalutarli. Anche perché la rete è la realtà alla massima potenza. Oggi.