Le persone omosessuali «hanno diritto a una famiglia», la «legge sulle unioni civili» va approvata. In una sequenza del docufilm «Francesco» del regista russo Evgeny Afineevsky, presentato ieri alla Festa del cinema di Roma, il pontefice pronuncia esplicitamente il proprio sì al riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali nelle legislazioni degli Stati.

Lo spunto cinematografico, che cita un episodio realmente accaduto, è una telefonata di papa Francesco ad Andrea e Dario, una coppia gay con tre figli piccoli, che avevano scritto al pontefice per raccontare il proprio disagio a portare i bambini in parrocchia per i pregiudizi degli altri cattolici. «Le persone omosessuali hanno il diritto di essere in una famiglia – dice il papa nel documentario –. Sono figli di Dio e hanno diritto a una famiglia. Nessuno dovrebbe essere estromesso o reso infelice per questo. Ciò che dobbiamo creare è una legge sulle unioni civili. In questo modo sono coperti legalmente. Mi sono battuto per questo».

L’affermazione di Francesco è in controtendenza rispetto alla dottrina dei «principi non negoziabili» di Ratzinger, che considerava il matrimonio fra un uomo e una donna l’unica forma di unione riconosciuta dalle leggi civili: la Chiesa e i cattolici – proclamava Ratzinger – devono battersi «di fronte ai tentativi di far sì che sia giuridicamente equivalente a forme radicalmente diverse di unione», come appunto le unioni civili fra persone omosessuali. Segna una discontinuità con i suoi predecessori e dimostra che, in un certo senso, anche la Chiesa è relativista.

Negli ultimi anni già alcuni vescovi avevano incoraggiato il riconoscimento giuridico delle unioni civili, comprese quelle omosessuali. Nel febbraio 2013 – un mese prima dell’elezione di papa Bergoglio – persino l’allora presidente del Pontificio consiglio per la famiglia, monsignor Paglia, si era espresso perché anche per «altre convivenze non familiari», comprese le coppie gay, si individuassero «soluzioni di tipo di diritto privato» e «di prospettiva patrimoniale. Credo che questo sia un terreno che la politica deve cominciare a percorrere tranquillamente», aveva detto Paglia. Immediatamente smentito, il giorno successivo, dall’Osservatore Romano.

Ora l’affermazione di Bergoglio, che si colloca all’interno di un percorso personale non sempre lineare. Da arcivescovo di Buenos Aires è stato un oppositore delle leggi per i matrimoni omosessuali. Anche se un suo biografo, Sergio Rubin, sostiene che in realtà il futuro papa approvasse, in privato, le unioni civili come forma di mediazione rispetto al matrimonio vero e proprio, anche per bloccare la possibilità di adottare figli da parte delle coppie omosessuali. Poi all’inizio del pontificato ci fu la “storica” frase «chi sono io per giudicare un gay?». E ieri il sì alle unioni civili.

Occorre in ogni caso distinguere il piano dottrinale da quello civile. Francesco parla di riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali da parte degli Stati, come è avvenuto in Italia con la legge Cirinnà del 2016 (e il fatto che nel film dialoghi con un regista russo, dove l’omosessualità è quasi un tabù, non è irrilevante). Ma questo non significa che la dottrina cattolica sia cambiata. Non c’è bisogno di andare troppo indietro nel tempo: il Sinodo dei vescovi sulla famiglia del 2015 e l’esortazione post sinodale Amoris laetitia dello stesso papa Francesco ribadiscono che «non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia». Le parole di ieri sembrano quindi piuttosto un’affermazione di laicità, ovvero l’annuncio che la Chiesa non farà barricate contro le decisioni degli Stati, anche su temi sensibili.

Di segno opposto le reazioni del mondo politico. Per Monica Cirinnà quelle del papa sono «parole importanti, che scalderanno il cuore di molte e molte persone omosessuali credenti». Per Vittorio Sgarbi, «il papa è vittima del relativismo e della moda». Alessandro Zan coglie lo spunto e invita: «Ora acceleriamo su legge contro omotransfobia». Quella che la Cei ha bocciato perché metterebbe a rischio la «libertà di opinione».