Con la conferenza stampa di inizio anno della premier, la classe dirigente della destra meloniana ha perso un pistolero e imbarcato un frate. È il francescano cinquantenne Paolo Benanti, messo in quattro e quattr’otto a capo della cosiddetta «commissione algoritmi» al posto di Giuliano Amato dal sottosegretario Alberto Barachini. La commissione dovrà consigliare il governo sulle norme in materia di tecnologie digitali e informazione. È un doppione di un’altra commissione governativa sullo stesso tema nominata dall’altro sottosegretario Alessio Butti. Per non sbagliarsi, Benanti fa parte anche di quella.

In molti hanno storto il naso: chiedere a un sacerdote di regolare le nuove tecnologie è un oscurantismo da ayatollah. Macché, hanno risposto gli altri (non solo da destra): rispetto all’ottantacinquenne Amato, il religioso è giovane e competente. Benanti è un prete, ma anche uno studioso di «altissimo profilo», «esperto della materia e unico italiano componente del Comitato sull’Intelligenza artificiale delle Nazioni Unite».

In realtà, il frate non è Khomeini ma nemmeno un premio Nobel. Dopo aver lasciato a metà gli studi di ingegneria nell’università pubblica a fine anni ‘90, ha preso i voti e si è laureato e dottorato in teologia morale all’università Gregoriana, con un paio di corsi integrativi alla Georgetown University di Washington (Usa). Su Scopus, il database della ricerca accademica, compaiono solo una ventina di pubblicazioni in cui Benanti figura tra i numerosi autori, quasi tutte intorno al tema delle tecnologie impiegate nella riabilitazione neuromotoria. Si tratta perlopiù di lavori compilativi, cioè revisioni e sintesi di ricerche svolte da altri con scarsa risonanza accademica, a cui il religioso ha contribuito soprattutto sul piano organizzativo. Nulla che farebbe vincere un concorso in un’università di minimo prestigio.

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Ma a dispetto dell’«altissimo profilo», la sua attività di ricerca è secondaria rispetto a quella di comunicatore: Benanti è instancabile sui social, realizza podcast, scrive saggi (non vendutissimi), è invitato a conferenze e trasmissioni tv su argomenti che spaziano dalla carne sintetica alla pandemia in cui promuove cautela e non chiusura sulle nuove tecnologie.

Da qualche anno è lui il frontman vaticano designato nella materia. Quando c’è da indicare un nome di fiducia in una commissione in cui si parla – e si fa poco altro – di digitale, oltretevere si raccomanda sempre il suo. Con il governo Gentiloni entra nella Task Force Intelligenza Artificiale dell’Agenzia Italia Digitale del 2017. Nel 2018 Di Maio lo nomina nel gruppo di esperti che aiuta il Mise a elaborare la strategia nazionale sullo stesso tema. Lo scorso ottobre sbarca a Palazzo Chigi sia nella commissione insediata dal sottosegretario Butti che in quella del sottosegretario Barachini. Per lui c’è posto anche nella Commissione di esperti tech voluta dal segretario generale dell’Onu Antonio Guterres.

Dalla sua Benanti ha un atteggiamento critico ma aperto all’intelligenza artificiale, che non pone la Chiesa ai margini del dibattito. «Abbiamo bisogno di un’algor-etica, ovvero di un modo che renda computabili le valutazioni di bene e di male» è il suo vasto programma. È anche la linea ribadita nel messaggio di Capodanno da Francesco, che ha voluto il frate nerd nella Pontificia Accademia della Vita. Soprattutto, è una posizione che non infastidisce i colossi del Big Tech con cui Meloni non cerca alcuno scontro. Spostare l’attenzione sul piano etico, infatti, mette in secondo piano i rapporti di forza economici su cui si fonda il capitalismo delle piattaforme e che reclamerebbero interventi sul piano fiscale, della privacy e del diritto del lavoro, più che su quello della morale.

Ma il progressista Benanti all’università Gregoriana si occupa anche di temi più concreti e caldi degli algoritmi e più cari alla destra: suo è il corso intitolato «Morale sessuale, coniugale e familiare». Dove si parla di tutto o quasi, dall’autoerotismo alla pedofilia, dall’omosessualità ai rapporti prematrimoniali e ovviamente dell’immancabile «ideologia gender». Sul tema tiene anche conferenze parrocchiali assai militanti che si possono ascoltare sul web, e dedicate a «quei fenomeni da baraccone che vediamo al Gay Pride».

Dove Benanti racconta che «l’utilizzo del termine queer è lo stesso che a Roma facciamo di “finocchio”… Quando giocavo al campetto dai salesiani, bastava mettere in dubbio la mascolinità dell’avversario per far scattare una rissa. Ora questi lo prendono come un vanto». «Questi»? Sono quei cattivoni secondo cui «non possiamo avere pretese di normalità» e per i quali «qualsiasi pretesa educativa sul piano della sessualità è una violenza». Ma a bocciare l’ora di educazione sessuale nelle scuole ritenendola «una porcheria» è stato il governo Meloni.