«Era buio ormai, quando si ritrovò la strada: il cielo tornava quello del mattino allorché si era partiti, e ritrovandolo non mi pareva vero che solo un giorno fosse passato, o quasi che il giorno l’avessi trovato forando un’unica notte, in fondo alla quale, come in fondo al tunnel della storia, stava sola, integra e distrutta, Palmira».

Così scriveva, nel 1958, Cesare Brandi nel suo diario di viaggio dedicato alle città del deserto. Le rovine che si spalancavano davanti allo sguardo, colto e sensibile, del padre del restauro italiano erano quelle di un sito archeologico stupefacente ma che versava in un «indescrivibile abbandono». Eppure, rimpiangeremo a lungo lo stato rovinoso per cui Brandi era costretto a camminare sulla grande via colonnata «scavalcando ostacoli» giacché, a terra, era ingombro di colonne cadute e pietre. Per vedere «la via più bella e più lunga che ci abbia lasciato l’antichità romana bisogna fermarsi», diceva.

E nell’avvicinarsi all’Arco monumentale (III sec. d.C.), distrutto il 4 ottobre dallo Stato Islamico, lo definiva un «nobile interrompimento» all’orizzonte che era, allora, una promessa di splendore. Al di là dell’Arco si levava, in tutta la sua secolare fierezza, la «sposa del deserto».

Dopo che un altro dei celebri monumenti del sito – capolavoro di architettura «prospettica» – è stato ridotto in macerie, da cui contemplare – come dei novelli Byron senza più speranze in tasca – la polvere del tempio di Bêl, quale visione di Palmira si offrirà agli occhi del viaggiatore post-guerra?

Il «tunnel della storia» evocato da Brandi è quello in cui non saremmo mai voluti entrare perché la beffarda violenza dei jihadisti ha cancellato anche la porta per uscire e non c’è rimasto neppure un «maledetto» idolo pre-islamico, a cui implorare uno squarcio di cielo tra le tenebre archeologiche del XXI secolo.