A qualche giorno dalla tragica esecuzione pubblica di Khaled As’ad, l’ex direttore del sito e del museo di Palmira, una nuova esplosione emotiva scuote gli animi degli studiosi di antichità e di quanti guardano al patrimonio archeologico come orizzonte culturale.

Il 23 agosto, l’Osservatorio Nazionale per i Diritti Umani in Siria ha annunciato che i miliziani di Daesh hanno fatto saltare in aria il Tempio di Baalshamin a Palmira, danneggiando gravemente anche il vicino colonnato.

A scongiurare l’evento non è bastato l’appello di Irina Bokova, Direttrice Generale Unesco, che tre mesi fa invitava al «cessate il fuoco» per proteggere uno fra i siti più sorprendenti del Mediterraneo. In seguito all’imperdonabile distruzione del monumento dedicato al dio del fulmine e della fertilità, la Bokova ha dichiarato che gli uomini del Califfo stanno compiendo, in Iraq e Siria, le più brutali e sistematiche devastazioni del patrimonio storico mai registrate dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Eppure, tra i due comunicati – quello di fine maggio e quest’ultimo – niente è stato fatto dall’agenzia Onu affinché la celebre città carovaniera, nella lista del World Heritage fin dal 1980 e dal 2013 fra i siti in pericolo, fosse salvaguardata. Nessuna voce «ufficiale» del mondo della cultura si è levata – agli inizi di luglio – quando l’Isis ha giustiziato venticinque soldati dell’esercito regolare nel teatro romano di Palmira, servendosi persino di adolescenti come boia e compiendo – secondariamente – un atto di vilipendio all’edificio che ha ospitato in passato nobili forme d’arte.

Lion_in_the_garden_of_Palmyra_Archeological_Museum,_2010-04-21
Il 27 giugno scorso era passata in sordina anche la demolizione del Leone di Allat, la colossale statua risalente al I secolo d.C. posta dalla fine degli anni ’70 a guardia del Museo di Palmira. «La “sentinella” dell’ingresso a Palmira – ci dice Pascal Arnaud, docente di Storia Romana all’Università Lumière-Lyon2 e già consulente Unesco per gli scavi di Beirut – non può considerarsi un obiettivo secondario per l’Isis. “Leone”, in arabo, si dice El-Assad e all’epoca di Hafez al-Assad quella scultura era emblema dell’universalismo del partito Baath».

«Il sito archeologico di Palmira – continua Arnaud – rappresentava il dominio, da parte del regime, della cultura dei colonizzatori, i quali avevano annientato una città araba medievale per far emergere un patrimonio più antico, spettacolare e maggiormente degno di attenzione». La «sconfitta» di tale cultura coloniale, garanzia di modernità e integrazione al mondo ormai nelle mani della nazione siriana, innescò quel processo ideologico che fece della regina Zenobia la leader di un Fronte di Liberazione Nazionale.

In realtà, come sappiamo ora da un recente libro di Annie e Maurice Sartre (Zénobie, de Palmyre à Rome, ed. Perrin 2014), Zenobia – che era la consorte di Settimio Odenato e a lui succedette quale imperatrice romana d’Oriente -, non fomentò le lotte contro i «colonizzatori» ma si oppose a un altro imperatore, Aureliano, con l’ambizione di conquistare il potere assoluto assieme al figlio Vallabato. L’importanza accordata da Hafez al-Assad all’archeologia come strumento di propaganda nazionalista si riflette nella scelta d’installare nel maestoso tempio di Bêl una residenza per il ministro della Cultura, dalla quale mostrare agli ospiti del regime i fasti della nuova Siria.

Ma se in giugno i miliziani hanno compiuto la loro vendetta archeologica e politica sul Leone di Palmira, fa riflettere la scelta di preservare proprio quel tempio e scagliarsi invece sul santuario dedicato a Baalshamin, datato al II secolo d.C., un gioiello architettonico ma certamente meno imponente e «caro» al turismo di massa. Le ragioni vanno probabilmente ricercate nella strategia economica dell’Isis, che da una parte distrugge manufatti con vere e proprie messe in scena, dall’altra risparmia tutto ciò che può esser fonte di guadagno.

25ultima tria de palmira
Il rilievo della triade palmirena (al centro, Baalshamin, Signore del Cielo), I sec. d.C. – museo del Louvre

La scelta di far saltare in aria il tempio di Baalshamin risiede forse nelle sue modeste dimensioni e nella sua posizione periferica. Coloro che continuano a credere che l’unico scopo dell’Isis sia cancellare il passato pre-islamico ed esercitare la furia iconoclasta contro gli idoli, dovranno sforzarsi di guardare oltre quest’uso strumentale e – a tratti abbagliante – dell’archeologia. Se finora non ci sono prove che l’ottantaduenne As’ad sarebbe stato torturato e poi barbaramente ucciso perché rifiutatosi di rivelare il nascondiglio di preziosi reperti, appare chiaro che per lo Stato Islamico – come d’altra parte ampiamente documentato da indagini della polizia internazionale – il traffico illegale di reperti sia una delle principali fonti di finanziamento.

È anche noto che Daesh venda a caro prezzo licenze per scavi clandestini, compromettendo – come già successo a Dura Europos e Mari – le stratigrafie dei siti ma favorendo la scoperta di manufatti da riacquistare e immettere sul mercato. Mentre facciamo il lutto al tempio di Baalshamin, dobbiamo aspettarci in futuro, altre dimostrazioni di violenza da parte dell’Isis, mirate tuttavia non alla distruzione globale di un patrimonio siriano già fortemente compromesso dalla guerra civile, ma a una destabilizzazione emotiva della comunità internazionale. Per questo, bandiere a mezz’asta e iniziative di commemorazione non ci aiuteranno a onorare uomini e a proteggere monumenti ma continueranno, in mancanza di azioni concrete, ad allontanarli per sempre dal nostro sguardo.