«Pace» e apartheid femminile, dramma Afghanistan
Diritti negati Violenze e divieti ovunque, la vita atroce delle donne dopo 15 mesi di Talebani
Diritti negati Violenze e divieti ovunque, la vita atroce delle donne dopo 15 mesi di Talebani
Zarifa Yaqoobi, Farhat Popalzai, Humaira Yusuf: simbolo della determinazione delle donne afghane, e insieme delle difficilissime condizioni in cui conducono la battaglia per l’uguaglianza di genere. Protagoniste, insieme ad altre decine di donne, delle proteste femminili degli ultimi mesi, sono state prelevate dai militanti Talebani a inizio novembre, mentre conducevano una conferenza stampa del “Movimento delle donne per l’uguaglianza”. Da allora, gli appelli per la loro liberazione si sono moltiplicati, incluso quello di Amnesty International, ma rimangono nelle mani delle autorità di fatto, i Talebani.
Da quando l’Emirato islamico è stato restaurato, nell’estate 2021, la violenza sulle donne è aumentata, la rete di protezione si è indebolita, le libertà sono state progressivamente erose. Molte donne continuano a combattere, organizzandosi pubblicamente o, molto più spesso, privatamente, ma una lunga serie di politiche, formali e informali, applicate a volte in modo rigoroso, altre in modo parziale e intermittente, hanno portato a maggiori restrizioni nell’accesso al lavoro, alla sanità, alla stessa libertà di movimento (oltre i 72 chilometri da casa, occorre essere accompagnate da un mahram). Alle adolescenti delle scuole superiori, da 435 giorni circa è negato il diritto all’istruzione.
Un quadro drammatico. Tanto che ieri, in occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, Roza Otunbayeva, a capo di Unama, la missione dell’Onu a Kabul, si è rivolta con un comunicato alle autorità di fatto, sollecitandole ad “adottare misure immediate per mettere fine alle violenze contro le donne e al più ampio deterioramento dei diritti delle donne, elemento cruciale per l’ottenimento di una pace duratura”. I Talebani sostengono di aver portato pace, sicurezza e stabilità. Ma l’apartheid di genere che promuovo mina alla base qualunque vera pace. Producendo, al contrario, forti conflitti sociali e culturali. Non solo tra i Talebani e buona parte della società, anche all’interno delle singole famiglie.
Lo abbiamo potuto verificare nei nostri due ultimi viaggi nel Paese, con l’Emirato già restaurato, nel novembre 2021 e nel maggio 2022 (pochi giorni fa, invece, ci è stato invece negato l’accesso). Abbiamo incontrato diverse ragazze che avevano dovuto ridurre le proprie ambizioni. O rinunciarvi del tutto, spesso su pressione delle famiglie. Studentesse universitarie che avevano dovuto cambiare facoltà, adolescenti senza prospettive, deluse e depresse. “Ti avevo detto che non dovevi perdere tempo con l’università!”, dicono i padri alle figlie. “Meglio che stai a casa, tira una brutta aria”, dicono i fratelli alle sorelle. L’indipendenza, già parziale e precaria, viene progressivamente meno. E viene meno la fiducia in se stesse.
Gli effetti psicologici dell’apartheid di genere sono difficili da misurare, ma la loro portata è enorme. Lo è oggi e lo sarà, ancora di più, domani. È un elemento che emerge anche in uno degli ultimi rapporti dell’Afghanistan Analysts Network, dal titolo esemplificativo: “Come può un uccello volare con una sola ala?”. Le restrizioni nel movimento, la ridotta libertà nella scelta del vestiario, sono aspetti esteriori di cambiamenti interiori: depressione, perdita dell’autostima, mancanza di fiducia nel futuro.
Inoltre, c’è più violenza e meno sostegno. Nel comunicato di Unama, si sottolinea come crescano le richieste di sostegno contro le violenze di genere, ma anche come l’accesso a protezione e cura sia negato. Eliminate le leggi che, almeno sulla carta, trattenevano le spinte più retrive e repressive, i codici sociali patriarcali, che perpetuano le disuguaglianze, si sono rafforzati.
La rappresentante di Unama invoca la creazione di “un ambiente libero da ogni forma di violenza”. Ma la situazione nel Paese rimane drammatica. Proprio di questo, de “Le donne e i diritti negati in Afghanistan”, si parlerà oggi a Roma, in via Amedeo Cencelli 8, nel corso della conferenza organizzata da alcune associazioni della diaspora afghana, tra cui Associazione socioculturale Nawroz, Unire, Comunità afghana in Italia, Associazione donne per le donne.
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