A un anno esatto di distanza dalla finzione elettorale con cui si è garantito il sesto mandato alla guida del Bielorussia, Alexander Lukashenko ha voluto affermare il totale controllo sullo stato attraverso un interminabile comizio tv.

Otto ore consecutive di diretta, durante le quali il presidente era circondato da fedelissimi ministri che sostenevano, documenti alla mano, il valore delle sue dichiarazioni, a tratti surreali. A cominciare dalla risposta violenta contro gli oppositori. «La repressione non c’è stata e non ci sarà mai», ha detto Lukashenko: «Non ce n’è alcun bisogno, sarebbe solo un male. Non mi sono sparato a una gamba, volete spiegarmi perché dovrei spararmi alla testa? Vedete, la repressione in Bielorussia sarebbe come spararsi».

Ma un anno fa di questi tempi Lukashenko camminava con il figlio Nikolai e un fucile automatico attorno al palazzo presidenziale per difendersi da migliaia di manifestanti per la verità pacifici che chiedevano libere elezioni. Come un Gheddafi del nord. La repressione c’è stata, è ben documentata e ha avuto conseguenze economiche severe.

Il quotidiano russo Kommersant ha riassunto gli ultimi dodici mesi con due dati: un miliardo e settecento milioni, il valore in dollari delle sanzioni approvate in Europa e negli Stati Uniti ai danni della Bielorussia; e 4.600, il numero di azioni penali aperte dalla procura generale contro studenti, operai e normali cittadini che hanno preso parte alle proteste contro Lukashenko. La più eclatante è con ogni probabilità quella che coinvolge Roman Protasevich, arrestato in aeroporto a Kiev dai servizi di sicurezza dopo che le autorità hanno costretto all’atterraggio di emergenza il volo Ryanair sul quale a maggio stava attraversando lo spazio aereo bielorusso assieme alla compagna, Sofia Sapega. Protasevich, 26 anni, reporter e attivista, legato in Ucraina al gruppo di volontari stranieri del Battaglione Azov, dirigeva da Varsavia un canale Telegram chiamato Nexta molto popolare fra i manifestanti bielorussi. Oggi rischia quindici anni di carcere. Amnesty International ha definito la detenzione “illegale”.

Da qui passa la linea che Lukashenko sta seguendo per mantenere il potere: in Bielorussia, ha detto, le forze globaliste cercano di concludere un altro cambio radicale di potere, com’è accaduto in Ucraina; nel caso in cui riuscissero qui, poi sarebbe la volta della Russia. Con Vladimir Putin i rapporti restano ambivalenti.

A Lukashenko serve il sostegno del Cremlino per evitare l’isolamento, ma nessuno a Minsk è pronto a concessioni particolari, se non su temi irrilevanti, dal transito di merci al sistema fiscale, e anche a Mosca i dubbi su una alleanza più stretta sono considerevoli. Così Lukashenko ha ribadito di essere pronto a riconoscere la Crimea come parte della Russia, “ma solamente quando tutti i loro oligarchi avranno fatto lo stesso”, avanzando in modo implicito la doppia accusa che in Russia ancora esista un sistema oligarchico e che quel sistema sia per di più diviso su un tema decisivo.

Le possibilità di cambiamento sono oggi ridotte rispetto a un anno fa. Quel che accade sul fianco orientale dell’Europa spinge a ritenere che il fattore economico sia determinante nei processi di transizione. La rivolta in Ucraina è cominciata quando l’ex presidente Viktor Yanukovich ha dovuto decidere tra i prestiti russi generosi e certamente interessati che avevano tenuto in piedi sino a quel momento le malandate finanze del paese, e un piano europeo di finanziamenti basato su riforme poderose e sull’esclusione del Cremlino dagli affari di casa. Il risultato è noto a tutti. Con la Bielorussia la situazione appare al momento diversa.

L’Unione europea ha approvato a giugno il quarto pacchetto di sanzioni proprio per il caso Protasevich. La Russia, dal canto suo, sta per concedere al governo di Minsk nuovi fondi attraverso la Banca eurasiatica di sviluppo (Eabr) per affrontare le ricadute economiche della pandemia. A quanto sembra a Lukashenko ancora non esiste un’alternativa concreta.