Ieri l’ex Guardasigilli Andrea Orlando (governi Renzi e Gentiloni) si è recato nel carcere Bancali di Sassari, insieme ad una delegazione del Pd, per verificare di persona le condizioni di salute dell’anarchico Alfredo Cospito, un uomo che «ha deliberatamente scelto di usare il proprio corpo come strumento di lotta» iniziando uno sciopero della fame il 30 ottobre scorso per opporsi al regime di 41 bis a cui è sottoposto da otto mesi.

Onorevole Orlando, come lo avete trovato?

Le sue condizioni sono di una persona che ha subito un forte deperimento ma ancora lucida, molto determinata ad andare avanti anche se con un rischio per la sua salute sempre presente a causa dei tassi di potassio registrati nel sangue che rischiano di compromettere il funzionamento degli organi involontari tra i quali il cuore. Non c’è un pericolo imminente ma un rischio costante.

Come se ne esce da questa situazione?

In astratto, al momento, i percorsi sono due: o la pronuncia della Cassazione, che è pendente attualmente sul reclamo avanzato contro la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Roma, o la decisione immediata del ministro di Giustizia. In ogni caso, si tratta di un atto amministrativo a firma del ministro su proposta di organi giurisdizionali.

Cospito si batte però contro l’intero sistema del 41 bis, non solo per la sua propria posizione. Andrebbe rivisto questo regime dell’ordinamento penitenziario?

È uno strumento che è stato pensato con specifiche finalità, originariamente solo per le organizzazioni mafiose. La mafia però è tutt’altro che sconfitta. Perciò, al netto delle modalità della sua applicazione, è uno strumento del quale ancora non possiamo fare a meno. La questione è se sia sic et simpliciter applicabile anche a fattispecie che sono parzialmente diverse, o se non si possano trovare anche altri strumenti. Anche perché in questo caso si è passati da un regime senza particolari prescrizioni legate al profilo di Cospito al 41 bis, senza prendere altri provvedimenti intermedi, pure possibili, come la censura della posta o altre forme di carattere interdittivo che si possono applicare secondo l’ordinamento dell’alta sicurezza.

Quindi c’è, come sostengono in molti, una sproporzione tra le misure restrittive che gli sono state imposte e il profilo di pericolosità del detenuto?

C’è sempre un margine di discrezionalità nell’apprezzamento delle situazioni. Evidentemente c’era un comportamento del quale si doveva tenere conto ma la cosa che andrebbe verificata è se le sue comunicazioni con l’esterno fossero in grado di orientare specifiche attività criminose o se avessero solo un carattere generico, molto diverso dai codici strutturati mafiosi che bypassavano i controlli dell’amministrazione penitenziaria e per fermare i quali è stato pensato il 41 bis. C’è poi da valutare anche se l’organizzazione a cui Cospito si riferisce sia comparabile per struttura gerarchica alle organizzazioni mafiose, e se si muova in conseguenza diretta alle sue indicazioni. E questo è un altro aspetto che va valutato guardando le carte, io non sono in grado di dare un giudizio. È lecito però chiedersi se c’è un margine di apprezzamento su una situazione come questa, perché non è detto che quel tipo di comunicazione tra Cospito e i movimenti anarchici abbia la stessa efficacia di quelle veicolate dalle organizzazioni mafiose.

All’Aquila alcune organizzazioni che si battono contro il 41 bis hanno manifestato a favore della brigatista Nadia Lioce e anche di Cospito. Secondo lei bisognerebbe almeno tornare alla versione iniziale del 41 bis, applicabile solo ai mafiosi?

Adesso il tema fondamentale è impedire che una persona muoia. E semmai verificare, a partire da questa vicenda, se non vi siano altri strumenti dell’ordinamento per interdire la comunicazione dei detenuti con l’esterno senza ricorrere al 41 bis. Certamente non dobbiamo farci dettare l’agenda dagli anarco-insurrezionalisti o da chi vuole aprire altri casi.

Nel Pd c’è una sensibilità rispetto al caso Cospito e ad altri casi come questo che dovessero presentarsi?

Nella delegazione che si è recata a Sassari era presente anche la capogruppo Serracchiani, e questo dice molto. Rispetto a quando ero ministro di Giustizia, nel Pd si è affermata maggiormente un’idea delle garanzie legata anche al carcere, non come patrimonio degli specialisti ma come senso comune del partito. È un fatto positivo e questa vicenda lo conferma: al tempo della mia riforma dell’ordinamento penitenziario trovai un forte consenso, trasversale, di una parte del Pd, ma anche molte resistenze.

Tanto che parte di quella riforma naufragò…

Sì, fu una delle ragioni: eravamo a fine legislatura e il provvedimento venne bloccato un anno al Senato e poi da alcune prescrizioni in Commissione. Oggi la situazione è diversa, anche se molti di quelli che impedirono quel passaggio oggi sventolano il vessillo del garantismo.