Le non fiction novel che hanno a che vedere con l’Asia, spesso soddisfano due requisiti fondamentali: un approccio all’Oriente maturo, ragionato e scevro da pregiudizi e stereotipi, insieme a una forte conoscenza specialistica dell’area di cui si scrive. Talvolta, però, mancano di piacevolezza stilistica, di capacità di adattare un racconto che ha il passo di un saggio, con un andamento da fiction risultando quindi noiosi.

Non è il caso di Sulle tracce di George Orwell in Birmania, di Emma Larkin (Add editore, 2018): oltre a raccontare due storie intrecciate, quella dello scrittore e quella di un paese, il doppio piano temporale della narrativa – gli anni ’20 e quelli più contemporanei – forniscono all’autrice la possibilità di farci muovere nella Birmania di allora e in quella di oggi con la stessa curiosità con cui leggeremmo un romanzo, perfino uno di Orwell. Perché se è vero che secondo i birmani i tre libri dello scrittore, Giorni Birmani, 1984 e La fattoria degli animali sono tutti e tre romanzi sulla Birmania, poi Myanmar, è altrettanto vero che anche nella sua produzione giornalistica e nei suoi gusti di formazione si troveranno echi orientali. Solo attraverso questo mix, di realtà e finzione, era possibile associare la sua vita a quella di un paese. Indagare le «tracce» di Orwell in Birmania significa prima di tutto analizzare la poetica dello scrittore, trovarne riferimenti costanti nella storia birmana, una cui parte fu vissuta da Orwell in quanto suddito di sua maestà.

Larkin svolge un lavoro immenso di riferimenti e assonanze e poco importa che il libro sia del 2004. Le recenti evoluzioni del Myanmar, se hanno visto uno spiraglio democratico con l’elezione della Lady Aung San Suu Kiy, l’hanno subito chiuso tanto sul proprio popolo, quanto sulle etnie considerate feccia, vedi i rohingya.

E allora questo libro ci suggerisce una traccia, basata sul fatto che così come Orwell prese chiaramente ispirazione (anche) dalla Birmania di allora per descrivere i germi delle società totalitarie, oggi non possiamo non notare una straordinaria assonanza tra le democrazie «illiberali» europee e alcune forme di stato asiatiche che – benché spesso catalogate come «autoritarie» dalla stampa nostrana – sembrano in realtà fornire un modello per tanti politici europei. La Cina, in particolare, con la sua efficienza, garantita dalla guida del Pcc, sembra essere non solo un gigante economico, ma un inaspettato modello cui fare attenzione, per comprendere al meglio alcune derive attuali delle nostre «democrazie».