Agli occhi di molti il tempo in Cambogia sembra essersi fermato. Gli scaffali delle librerie di Phnom Penh traboccano di biografie in inglese su Pol Pot e i turisti vogliono vedere i luoghi simbolo dell’inferno di fame, tortura e morte realizzato qui tra il 1975 e il 1979 dal regime dei khmer rossi. Con la fine della missione Onu, che all’inizio degli anni ’90 si era impegnata a costruire la democrazia in questo angolo del sud-est asiatico, la Cambogia è però scivolata via dall’attenzione internazionale. Con «Hun Sen’s Cambodia», Sebastian Strangio, giornalista australiano che ha vissuto per anni a Phnom Penh, ha il merito di descrivere le molte contraddizioni di quel che è stato in questi ultimi decenni «il miraggio sul Mekong».

Mentre l’occidente era distratto, il paese ha registrato una crescita economica annua di oltre il 7%, diventando uno dei poli mondiali per la produzione tessile e la povertà assoluta è scesa al 13% (nel 2007, circa la metà dei cambogiani viveva sotto la soglia della povertà).

Strangio osserva la Cambogia attraverso il prisma della figura del primo ministro, «il leader forte di una nazione debole». Hun Sen è al potere a Phnom Penh da 33 anni e la sua ombra incombe su ogni aspetto della vita del paese. Oggi l’economia è una delle più aperte della regione, anche se molti settori sono dominati della rete di potere e di clientele che risponde al primo ministro. A controllare la «Hunsenomics» è una élite di personaggi – spesso membri della sua famiglia – che hanno costruito imperi economici fondati sulla corruzione, l’esproprio delle terre e lo sfruttamento sconsiderato dell’ambiente. Quella cambogiana è una delle società civili più vibranti del sud-est asiatico, anche se i leader dell’opposizione sono stati più volte arrestati o costretti all’esilio, mentre non si contano i giornalisti, gli attivisti per i diritti umani o i sindacalisti trovati assassinati in circostanze mai chiarite.

In ogni pagina del libron il primo ministro cambogiano si dimostra un abile e spregiudicato animale politico in grado di avere la meglio con avversari interni e con la comunità internazionale. «Hun Sen è un uomo che è in grado di adattare sé stesso a ogni situazione, a condizione che possa ottenerne qualcosa». Natali umili nella provincia rurale e pagoda-boy, Hun Sen lascia la scuola e si unisce alla guerriglia comunista. Per fuggire a una purga interna al regime dei khmer rossi, nel 1977 diserta e passa il confine con il Vietnam. Quando le truppe di Hanoi invadono (secondo altri, liberano) Phnom Penh, rovesciando il regime di Pol Pot, Hun Sen diventa ministro degli esteri e poi capo del governo.

Questi decenni di pace e di sviluppo economico sono alla base della legittimazione della sua leadership. Alternando discorsi populisti, l’evocazione di personaggi mitici della storia cambogiana e la minaccia del ritorno della guerra civile in caso di vittoria delle opposizioni, continua a tenere ben saldo il potere nelle sue mani. Dopo lo scioglimento lo scorso novembre del Cambodia National Rescue Party, la principale forza di opposizione del paese che cinque anni fa aveva ottenuti il 44% dei voti popolari, non ci si aspettano sorprese dal voto del 29 luglio. Un’elezione che secondo gli osservatori servirà solo a spianare la strada all’ascesa politica del figlio di Hun Sen, Hun Manet.
(Hun Sen’s Cambodia, Sebastian Strangio, Yale University Press)