Il «controllo internazionale delle sostanze stupefacenti» tornerà centrale nel calendario internazionale a marzo del 2019 quando le Nazioni unite di Vienna ospiteranno un vertice dove governi e agenzie dell’Onu dovranno fare il punto sulle politiche in materia di droghe a 10 anni dall’adozione di una dichiarazione politica in materia.

Il processo preparatorio di questo incontro pare quasi far l’economia di quanto deciso in occasione della Sessione Speciale dell’Assemblea Generale dedicata alle sostanze stupefacenti proibite, Ungass, tenutasi a New York nell’aprile 2016. Le 24 pagine del documento di uscita dell’Ungass delineano ambiti, temi e tendenze da seguire per perseguire la riduzione della domanda, promuovere lo sviluppo alternativo, includere quanto più possibile i diritti umani quando si cerca di controllare le droghe, garantire l’accesso alle medicine essenziali e non escludere una certa flessibilità interpretativa delle tre Convenzioni delle Nazioni unite.

Il documento finale ripercorre sicuramente in gran parte il modello declamatorio delle passate Ungass e si caratterizza per pochi passi avanti riconfermando una sostanziale fedeltà alle Convenzioni senza prendere in considerazione alternative più strutturali. Rappresenta però un passo avanti rispetto alla rigidità della dichiarazione politica del 2009 che non aveva preso in considerazione la proibizione della pena di morte per reati di droga né la richiesta di moratoria delle esecuzioni; nessuna chiara indicazione per la decriminalizzazione dell’uso e consumo personale né circa la riduzione del danno.

Le fasi di preparazione del segmento di alto livello che hanno caratterizzato la Commissione Droghe di Vienna del marzo 2017 stanno facendo emergere di nuovo approcci molto diversi che echeggiano quelli visti a New York l’anno scorso. I paesi latino-americani promotori dell’anticipazione dell’Ungass dal 2019 al 2016, guidati da Colombia, Messico e Guatemala, hanno ripercorso le ragioni dell’insostenibilità (economica, politica, democratica) della war on drugs, ribadendo la necessità di un cambio di passo che allinei il controllo globale della droga al rispetto dei diritti umani. Dall’altro versante, il solito gruppo di paesi in posizione nettamente difensiva sia che si parla di diritti umani che di riduzione del danno che continua a proporre la «riduzione della domanda» come l’unica strategia, fatta di prevenzione e di risposta penale. L’arrivo di Trump ha fatto tornare gli Usa dalla parte dei non dialoganti mentre l’Europa sconta radicali differenze che vedono i paesi orientali molto scettici relativamente a certe aperture.

In tutto questo l’Italia, che dopo anni di allineamento al fronte punizionista si era finalmente caratterizzata per una prudente ma decisa inversione di marcia circa l’atteggiamento da tenere per il futuro, mantiene il punto con affermazioni importanti che non hanno però riscontro a livello nazionale.

Nel suo intervento all’Ungass del 2016 il ministro Andrea Orlando aveva affermato che l’approccio delle Nazioni unite «deve essere pragmatico piuttosto che ideologico: orientato ai risultati e che incoraggi gli Stati a promuovere politiche pubbliche motivate dal criterio dell’efficacia piuttosto che dalla demagogia». L’ideologia a cui si riferiva Orlando era quella del proibizionismo che ritiene gli stupefacenti pericolosi e quindi da vietare, la demagogia quella che divide la società in «drogati» e persone «normali» e vuole un «mondo libero dalla droga».

Nei mesi che hanno separato la plenaria di New York con la 60esima sessione della Commissione Droghe dell’ONU il governo Renzi e quello Gentiloni non hanno dato segno di un cambio di passo. Malgrado la Camera dei Deputati abbia discusso il 25 luglio 2016 di legalizzazione di cannabis per un’intera giornata, il governo non ha fatto sapere quale fosse la sua posizione in materia, non solo, nessuna delle raccomandazioni contenute nel documento adottato all’unanimità all’Ungass si è tradotta in politica pubblica. A fine 2016, senza la benché minima valutazione o spiegazione tecnica o politica, abbiamo assistito a un cambio dei vertici del Dipartimento per le Politiche Anti-droga, di nuovo cambiati alla vigilia della riunione della Commissione Droghe dell’Onu nel marzo scorso.

Eppure l’Ambasciatrice presso le Nazioni unite di Vienna Maria Assunta Accili ha confermato che è intenzione dell’Italia «Mettere l’uomo al centro delle politiche in materia di droga» e che occorra «coinvolgere la società civile e la comunità scientifica nella formulazione di politiche antidroga» tanto quanto «investire in prevenzione» per «proteggere gruppi vulnerabili» e lottare contro la «povertà e a favore dello sviluppo alternativo per lotta alla produzione illegale droga». Niente che si sia potuto verificare a livello nazionale.

Come sempre alla Commissione Droghe di Vienna si sono tenuti incontri paralleli, dall’accordo di pace in Colombia alla lotta al narco-traffico tra i paesi bagnati dal Mekong, passando per decine di eventi promossi dalle Organizzazioni Non-Governative. L’Italia si è caratterizzata nell’ospitare eventi sulla «pericolosità dell’uso della cannabis da parte degli adolescenti» con il professor Gaetano Di Chiara e i «trattamenti di consumatori che entrano nel circuito penale» con il professor Icro Maremmani. Due relatori con percorsi e competenze diverse se non contrapposte. Insomma una caratterizzazione un po’ troppo all’Italiana.

Quella del 2016 è stata una Sessione speciale dell’Assemblea Generale di passaggio verso il summit governativo che nel 2019 dovrà rivedere la dichiarazione politica del 2009. L’ingresso dell’Italia tra i paesi che laicamente si pongono di fronte al controllo delle dipendenze, e dei rischi e danni a loro connessi, doveva, deve, esser nutrito di fatti concreti. La convocazione della VI Conferenza nazionale sulle droghe, assente dal calendario istituzionale dal 2009, è urgente perché quello è il luogo deputato per passare dalle parole ai fatti sulla base della valutazione di quanto promosso negli anni. Del tutto latitante resta l’attenzione alle necessarie riforme strutturali per quanto riguarda gli aspetti socio-sanitari del consumo problematico delle sostanze- anche alla luce dell’inclusione della riduzione del danno tra i Livelli Essenziali di Assistenza – e il coinvolgimento della società civile per tutto ciò che attiene organizzazione e coordinamento di servizi. Allo stesso tempo l’adozione di politiche basate su «evidenze scientifiche» continua a esser una priorità retorica del tutto assente dalle pratiche quotidiane, anche a livello regionale, per non parlare dell’impegno bilaterale o multilaterale per la promozione dell’accesso alle medicine essenziali – tra cui gli oppiacei.

Mancano ancora due anni al 2019 ma attendere l’ultimo minuto di sicuro non aiuterà.