Non erano passate 48 ore dalla chiusura dei Mondiali 2018 che per molti versi hanno rappresentato un successo per la presidenza Putin – 2 milioni di turisti e nessun serio problema di ordine pubblico – quando ieri sono piovute sul Cremlino due pesanti sentenze della Corte europea dei diritti umani, che riguardano i due più clamorosi casi di repressione e di violenza politica avvenuti in Russia negli ultimi anni.

LA PRIMA è relativa al celebre collettivo punk e femminista delle Pussy Riot. Nel 2012 per protestare contro i brogli elettorali nelle presidenziali il collettivo tenne una performance nella Cattedrale di San Cristo Salvatore a Mosca. Per questo 3 giovani membri del collettivo, tutte donne, furono accusate di «teppismo» e «istigazione all’odio religioso» e condannate a due anni di prigione (ma una amnistia della Duma permise alle attiviste di uscire di prigione l’anno successivo). Ieri il tribunale di Strasburgo ha condannato lo Stato russo a un risarcimento di 40 mila euro «per aver violato numerosi diritti umani» nei confronti di Marya Alekhina, Nadezda Tolokonnikova e Ekaterina Samuzevic, soprattutto per i «5 mesi di detenzione preventiva e le restrizioni della libertà in carcere».

MA LA SECONDA sentenza di ieri del Tribunale dei diritti umani, legata all’omicidio della giornalista Anna Politkovskaja, è forse quella più significativa politicamente. Il tribunale ha imposto alle autorità di Mosca il pagamento di 20 mila euro alla famiglia «per non aver condotto un’inchiesta efficace al fine di identificare i mandanti dell’omicidio». Politkovskaja era diventata famosa in tutto il mondo per le sue inchieste pubblicate sulla guerra in Cecenia sul giornale d’opposizione Novaya Gazeta (i suoi reportages sono stati pubblicati in italiano da Adelphi con il titolo La Russia di Putin). La coraggiosa giornalista russa aveva in particolare denunciato i fenomeni di tortura e i massacri compiuti dall’esercito russo durante la Seconda guerra cecena (1999-2009) contro i ribelli della piccola repubblica caucasica e aveva chiamato spesso in causa, a tale proposito, lo stesso Putin. Politkovskaya venne brutalmente assassinata il 7 ottobre del 2006 nell’ascensore dell’edificio dove viveva nel centro di Mosca. Il successivo processo del 2008-2009 portò alla condanna dei presunti esecutori dell’omicidio ma non chiarì mai chi potessero essere stati i mandanti.

POLITKOVSKYA da allora è diventata un simbolo della battaglia per la libertà di stampa in Russia. Purtroppo la Russia è ai primi posti della triste classifica per il numero di giornalisti assassinati o morti in circostanze poco chiare. Dal 2000, anno di ascesa al potere di Putin ad oggi sono stati contati oltre 120 casi di questo tipo, mentre sono stati migliaia i giornalisti minacciati o picchiati mentre svolgevano il loro lavoro. Solo qualche mese fa, il 15 aprile 2018, Maxim Borodin, un cronista di Ekaterinburg è morto per le ferite riportate dopo essere caduto dalla finestra di casa sua in circostanze «sospette». Il giornalista si era recentemente occupato del fenomeno dei mercenari russi in Siria.

L’ESEMPIO di Anna Politkovskaja non è stato però dimenticato. Il 13 luglio di quest’anno proprio davanti alla sede di Novaya Gazeta è stato inaugurato un piccolo parco che porterà il suo nome. Alla cerimonia erano presenti decine di giornalisti ed è stato ricordato che l’idea del parco fu sostenuta sin da subito con entusiasmo dall’ultimo presidente dell’Unione sovietica Michail Gorbaciov.