La mia prima Coppa del Mondo è quella del 1958, vinta dal Brasile in Svezia contro la nazionale locale. Avevo tre anni e vivevo a San Paolo, la metropoli dal cuore di ferro del Gigante sudamericano. Ero lì, figlio nipote e pronipote di emigranti veneti. I tempi in cui eravamo noi a partire, per fame per sogno per speranza per disperazione, quaranta giorni di oceano, accompagnati dalle onde adulte dalla nostalgia e dal dolore, il saluto delle madri, il fazzoletto stretto in mano, ai porti. Si partiva e si andava, spesso, lontano, verso terre che pochi conoscevano, nomi che rappresentavano una suggestione, un’ipotesi, una Mompracem da conquistare. Mio padre disegnava mobili e dipingeva, mia madre controllava noi tre fratelli, Lamberto il più grande, Fabrizio il più piccolo. Abitavamo al quartiere Cambuci, che era un piccolo mondo: giocavo a pallone con bambini mulatti, musulmani, ebrei, giapponesi. Quella palla rappresentava la nostra lingua in comune, riuscivamo a capirci e non ci importava niente il colore della nostra pelle o la religione dei nostri padri. Tifavo per il Palmeiras, che un tempo si chiamava Palestra Italia, ed era il club degli italiani, fondato nel 1914. Lamberto era del Corinthians, e quando la sua squadra perdeva non voleva mangiare e mia mamma si arrabbiava molto.
Racconto, certo, di una Coppa per sentito dire, ero piccolo, ma qualcosa mi sembra di rammentare, di averla vissuta per davvero, d’altra parte, come ci insegnò Osvaldo Soriano, la memoria ingigantisce ogni cosa. In quella Coppa Rimet, si chiamava ancora così, non c’era, per la prima volta, l’Italia, eliminata dall’Irlanda del Nord (ora, sessant’anni dopo, non andremo in Russia, estromessi dalla non irresistibile Svezia), il Brasile cercava ancora la rivincita alla beffa atroce del Mundial del 1950 perso in casa, contro l’Uruguay, 2-1, nella partita decisiva al Maracanã di Rio de Janeiro. Furono lacrime e dolore, ci furono suicidi, una vera e propria tragedia nazionale, con il portiere Moacyr Barbosa che pagò per tutti, diventando un invisibile, un emarginato. Il capro espiatorio da sacrificare.
In terra svedese, invece, la Seleçao diede spettacolo, grazie alle finte magistrali di Mané Garrincha, l’angelo dalla gambe storte, e alle meraviglie di un ragazzino mineiro, soprannominato Pelé, uno che giocava con il sorriso e ogni suo guizzo era un colpo d’autore, una magia, una meraviglia. Poi c’erano il centravanti Vavá, che prese, a un certo punto della competizione, il posto a José Altafini, che tutti chiamavano «Mazola», con una zeta sola, perché assomigliava a capitan Valentino, ed era il mio idolo visto che giocava nel Palmeiras (oggi è uno dei miei migliori amici), il fine dicitore Didi, il terzino sinistro Nilton Santos soprannominato «Enciclopedia del calcio», il capitano Bellini, quello che alzò per primo la Coppa, e in porta c’era, con tutta la sua a bravura e tutta la sua eleganza, Gilmar, a quell’epoca fidanzato, così mi hanno detto, con una mia cugina.
Ci fu, anche nel mio quartiere, dopo la vittoria nella finalissima, per 5-2 contro gli svedesi, che potevano contare su «stelle» come Liedholm, Hamrin, Gren, Skoglund, un carnevale posticipato. Suoni, balli, coriandoli e quel «campioni, campioni, campioni» ripetuto fino alla stordimento, allo sfinimento, alla follia. Con il tempo, imparai ad ammirare Mané Garrincha, il povero, nato con la poliomielite, analfabeta, che, con quelle gambe sghembe, riusciva a mettere a sedere qualsiasi avversario. Pensate: esordì in nazionale, contro il Cile, a Rio, il 18 settembre 1955, mentre io nascevo a San Paolo. Il grande poeta Carlos Drummond de Andrade, magistralmente tradotto in Italia da Antonio Tabuccchi (l’autore di Sostiene Pereira tifava Fiorentina, giocava all’ala destra e aveva come idolo lo svedese Kurt Hamrin), scrisse sul Jornal do Brasil, molti anni dopo: «Fu un povero e semplice mortale che aiutò un paese intero a sublimare le sue tristezze. La cosa peggiore è che le tristezze ritornano e non c’è un altro Garrincha disponibile. Ne occorre un altro che continui ad alimentarci il sogno». E il poeta e cantautore Vinicius de Moraes, nel suo «Canto d’amore e angoscia per la Nazionale d’oro del Brasile», modulò: «La rivoluzione sociale in marcia si ferma meravigliata a vedere il signor Mané palleggiare e poi prosegue il cammino».
Da ragazzino, arrivato con la mia famiglia in Italia, nel 1961, a Torino, giocavo a calcio vicino a casa e imitavo quell’ala destra, come scrissi nella mia Ode per Mané (Limina 1996, del sempre caro e indimenticabile editore e amico Enrico Mattesini): «Resta la memoria dei sogni che abbiamo sognato, che hanno cullato i nostri giochi di bambini. Con tenerezza, riprendo me stesso fanciullo per mano, un ragazzino che, su quei prati che erano ancora prati, urlava ai suoi amici: io sono Garrincha!, e con il numero sette che mia madre mi aveva cucito sulla maglia inseguivo un pallone e la vita».
Nel 1958, ero felice. Tutti i miei cari erano ancora vivi e il mondo mi sembrava migliore. Una cosa importante ho imparato da quella mia infanzia brasiliana: che il razzismo è davvero la cosa più stupida del mondo. E giocare a pallone, a volte, ti insegna a stare insieme, ti mette nelle vene, sempre e per sempre, la solidarietà, la tolleranza, il rispetto, l’accoglienza.