«Non creeremo problemi ai diplomatici statunitensi, né vieteremo alle loro famiglie o ai bambini di fare le vacanze dove sono soliti farle. Ho invitato personalmente tutti i figli dei diplomatici Usa accreditati in Russia per la celebrazione di Capodanno e Natale al Cremlino».
Così Vladimir Putin si è compiaciuto di spiazzare l’attesa del mondo diplomatico e dei media che si apprestavano a registrare la «dura risposta» russa alle sanzioni di Obama.

DOPO CHE L’AMBASCIATA russa di Londra aveva dileggiato Obama con la foto di un anatroccolo e la didascalia «zoppa!» , dopo e che il ministero degli esteri di Sergei Lavrov aveva già stilato i nomi dei 35 diplomatici americani passibili di simmetrica controespulsione, Putin ha optato con mossa spiazzante e squisitamente populista, per la plateale conciliazione corredata di regali ai bambini.

Gli eventi misurano la distanza posta ormai anche in campo internazionale fra politica «tradizionale» e new normal. Un quadro in cui le sanzioni di Obama paiono anacronistiche vestigia di guerra fredda, inutili indignazioni di un triste crepuscolo che finiscono per ingigantire l’avversario che dopo aver «scippato» la Siria e possibilmente interferito nelle elezioni Usa, gigioneggia sul palcoscenico mondiale.

NEL CONTESTO DELL’ELEZIONE di Donald Trump c’è insomma la netta impressione di un ordine mondiale in fase di radicale riallineamento in cui vecchia e nuova politica si muovono in universi paralleli.

L’avvicendamento presidenziale americano ed il prossimo governo infarcito di generali e manager della Goldman Sachs, va ben oltre la normale alternanza e perfino una restaurazione reazionaria come quella attuata da Ronald Reagan.

L’avvento di Trump prefigura un sanguinoso scenario di plutocrazia corporativa e un programma di turbo capitalismo puntellato da un arcigno nazionalpopulismo. La dichiarazione di Putin che ignora, e sardonicamente compatisce Obama, dialogando già col suo successore, vorrebbe essere un ulteriore necrologio del lascito globale del presidente uscente.

Da canto suo, a difesa di una legacy sempre più tenue, Obama sta lanciando una raffica di ultimi decreti ad intralcio del nuovo inquilino dello studio ovale. Fra i conti regolati una serie in particolare è legata alla protezione dell’ambiente in attesa dell’insediamento di un governo che fra i ministri annovera il direttore della Exxon.

In questo progetto si inserisce la protezione di vaste zone di acque e coste artiche poste off-limits alle trivellazioni, la moratoria all’oleodotto Dakota Access contestato dai Sioux e, l’altroieri, l’istituzione di due nuovi parchi nazionali in Utah e Nevada – ground zero dell’estremismo della destra anti statalista del west.

COME QUELLE MISURE e l’ultima campagna di iscrizioni al programma sanitario pubblico che Trump ha promesso di abolire, l’accentuazione dello scontro coi russi e l’intervento su Israele devono essere lette in un ottica di equilibri interni come pillole avvelenate disseminate contro il successore. Forse solo l’attuale distopico scenario di una politica americana irriconoscibile poteva produrre un discorso come quello dell’uscente segretario di stato John Kerry su Israele.
Ma al di la della catarsi per le inconsuete verità che ha espresso, la «geremiade israeliana» di Kerry è servita soprattutto a sottolineare il fallimento e l’impotenza americana medio oriente.

UN FALLIMENTO POLITICO soprattutto perché l’attacco alla destra israeliana serve piuttosto a compattare quella americana e la sua base «sionista-evangelica» mentre allo stesso tempo rischia di spaccare seriamente proprio il partito di Obama.

Su questa questione infatti molti democratici influenti, come il nuovo speaker democratico Chuck Schumer che dovrà coordinare l’opposizione a Trump, sono semmai allineati con Netanyahu.

ANCHE LE SANZIONI RUSSE vanno lette in un ottica interna: avrebbero dovuto obbligare Trump – nel revocarle – a uno scomodo schieramento «filorusso» che lo avrebbe posto in rotta di collisione con l’intelligence e con ampi settori della vecchia guardia Gop.

La linea «dura» infatti si allinea con quella di influenti falchi repubblicani come Lindsay Graham e John McCain – proprio oggi in missione pro-Nato nei paesi baltici.
Spiega perché i democratici stano giocando con tale insistenza la carta anti-russa: come grimaldello per incrinare il fronte repubblicano facendo leva sulla destra patriottarda fisiologicamente allergica al possibilismo di Trump.

Spiega anche probabilmente perché sia Putin che Trump abbiano scelto di dissimulare in contemporanea.

L’uno dichiarando che «a Obama e alla sua famiglia auguro un felice anno nuovo», Trump affermando semplicemente che «i computer sono cose complicate» e che è ora di «passare oltre» in un siparietto surreale in cui la questione mediorientale è stata invece lasciata al giullare, promoter e truffatore di pugili Don King. Benvenuti nel new normal.