E così oggi «sciopero». Il mio desiderio è che riesca perché so quanto sono sfortunati i paesi dove un sindacalismo storico e attuale non trovi autonomia e il consenso di lavoratrici e lavoratori.

Di recessione democratica si è discusso da poco nel summit voluto da Joe Biden. Il presidente Mattarella ha descritto la democrazia come una conquista facendo capire quanto il rischio di diseguaglianze e solitudini possa consumarla.

La realtà è che assieme al Covid circola un altro virus. Quello del disagio e di una sfiducia che può sfociare in reazioni pessime e pericolose.

Rappresentare bisogni e sentimenti spetta a istituzioni, governi e ai partiti che anche così disegnano la propria funzione. Da sempre però sono conflitti e movimenti a dare corpo e un’anima alla difesa e ampliamento dei diritti collettivi, alla formazione di una coscienza e del civismo migliore.

La nostra è una stagione che imporrebbe di riconnettere quei diritti: umani, sociali, civili. Per questo un campo democratico sa ascoltare e fare da sponda ai conflitti quando “buoni”.

Ecco perché con le sue complicatezze questo sciopero esprime un conflitto che rende protagonista della “brava gente” che fatica, che non si sente vista, che per le otto ore di lotta vedrà la paga decurtata. È già accaduto in passato di vivere contraddizioni e limiti. In questo caso pesa la rottura sindacale perché le divisioni indeboliscono il fronte del lavoro.

Ad alcuni può sembrare problematico lo strappo in un passaggio difficile tra pandemia e attuazione del Pnrr.

La manovra ha segni espansivi; la riforma sugli ammortizzatori; l’accordo sullo smart working nel privato; l’assegno unico per i figli. Con il premier l’Italia ha guadagnato autorevolezza e deve usare bene le risorse in arrivo dall’Europa.

Dunque guardo al ramo perché c’è più di un frutto maturo. Ma quel ramo è parte di una foresta inquieta per le sofferenze di donne, giovani, lavoratori cacciati da un impiego che garantiva sopravvivenza e orgoglio.

Insomma il Covid ha reso evidente che esiste una grande e globale questione di dignità e riconoscenza sociale di meriti e giustizia. Allora chi ha potere abbassi il ponte levatoio e cerchi il confronto.

Qualcuno ha scritto che l’Italia fatica a vivere il clima dell’altra grande ricostruzione, quella del dopoguerra. Nel senso che stenta a sentirsi una comunità dove insieme – operai, studenti, giovani, donne – trovino le ragioni per un cammino comune verso un “dopo” diverso dal “prima”.

Anche per questo vorrei un sindacato più largo e radicato. Il sogno è di piazze che si incontrino. Vorrei che il mondo di Greta, le piazze del Ddl Zan o la domanda di una legge saggia sul fine vita, i migranti senza riparo, il volontariato, i precari, le risorse della cultura si ritrovassero.

Commentatori conformisti hanno decretato che questo paese non può permettersi conflitti e scioperi. Credo che l’Italia non dovrebbe permettersi altro: evasione fiscale, illegalità diffusa, milioni di poveri assoluti, salari bassi e morti sul lavoro, una dispersione scolastica, cittadini condannati a “vite di scarto”.

A fronte di tutto questo c’è chi si frega le mani e “gufa” contro Landini.
Alcuni il 16 ottobre facevano la passerella in Piazza San Giovanni, mostrando solidarietà dopo l’aggressione fascista alla sede della Cgil. Gli stessi non provano imbarazzo a condividere la scelta di non sospendere per un anno la riduzione dell’Irpef per i redditi sopra i 75 mila euro, una semplice forma di solidarietà a vantaggio delle fasce sociali più in difficoltà.

Governare è difficile, lottare collettivamente è ancora più costoso. Unire, però – e questo le donne lo sanno meglio di chiunque – è sempre una magia.

Il Presidente del Consiglio riattrezzi il tavolo perché senza i sindacati e senza vedere gli ultimi della fila anche le leadership più autorevoli sono più sole. Per la sinistra e per noi escono due conferme: il “campo largo”, le Agorà, crescono nella società che come la vita non è mai depurabile da passioni, conflitti e persone. Per cui è vero: alla fine “o di qui o di là”, bisogna scegliere anche quando la scelta può apparire imperfetta.