Alaa Jamari, 26 anni, da sei mesi prova invano a tornare a Gaza, la sua terra. È bloccato e sotto sorveglianza in una stanza di un hotel vicino all’aeroporto di Abu Dhabi. Le autorità locali prima lo hanno espulso (perché non ha un permesso di lavoro valido) verso l’Egitto che a sua volta lo ha rispedito indietro all’arrivo al Cairo. Israele da parte sua gli rifiuta il permesso di transitare per l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv perché un tribunale afferma che può passare per il valico di Rafah, ora riaperto, fra Egitto e Gaza che però il giovane palestinese non può raggiungere poiché non è autorizzato a passare per l’aeroporto del Cairo. A complicare le cose si è aggiunta la normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli Emirati: l’Olp in segno di protesta ha richiamato il suo rappresentante diplomatico ad Abu Dhabi e ora l’ambasciata palestinese non può assisterlo. «La vicenda ricorda il film ‘Terminal’

Un tweet della dirigente palestinese Hanan Ashrawi su Alaa Jamari

di Steven Spielberg», ha scritto il giornale Haaretz. Ma non c’è fiction nella storia di Alaa Jamari: è tutto terribilmente reale. La sua disavventura potrebbe essere quella di tutti i palestinesi dei Territori occupati quando viaggiano all’estero. E per quelli di Gaza è persino più complicato quando, ed è raro, riescono a lasciare il loro fazzoletto di terra schiacciato tra Israele ed Egitto.

 

Sui social qualcuno ricorda che il giorno che Jamari riuscirà a tornare a casa, passerà dalla sua stanza-cella di Abu Dhabi a una cella più grande, Gaza. E le tensioni in questa “prigione a cielo aperto” sono risalite. Sono ripresi i lanci di palloncini incendiari verso il sud di Israele – dove provocano danni – e, di notte, di razzi che mettono in allarme gli israeliani che vivono nei dintorni di Gaza. Israele risponde sparando missili e sganciando bombe. Che non ci siano stati morti è un miracolo. Va avanti così da una decina di giorni e il rischio che tutto sfoci in una nuova guerra aumenta con il passare delle ore. Gli israeliani addossano tutte le colpe ai gruppi militanti palestinesi e descrivono i bombardamenti aerei come una «risposta al terrorismo».

E non pochi, anche tra coloro che all’estero sostengono le ragioni palestinesi, non approvano il lancio da Gaza di palloncini incendiari e razzi. Il dibattito è aperto ma sullo sfondo resta oscurata, lasciata senza una soluzione, la madre di tutti i problemi. Gaza da 13 anni è stretta in un rigido blocco israeliano. Israele decide chi e cosa entra o esce dal territorio palestinese. Israele ha la facoltà assoluta di chiudere o di aprire i valichi, di autorizzare o fermare gli aiuti finanziari del Qatar per la popolazione palestinese. Una morsa asfissiante che due anni e più di trattative indirette tra il governo Netanyahu e il movimento islamico Hamas (che controlla Gaza) non hanno eliminato o anche solo attenuato. Per due milioni di palestinesi la vita quotidiana era e resta un inferno fatto di mancanza di energia elettrica e acqua potabile sufficiente, di enormi difficoltà a uscire da Gaza, di disoccupazione record, di povertà diffusa, di  blocco navale. La questione però non è di carattere umanitario, è politica: la libertà per due milioni di persone.

 

Al momento non ci sono spiragli per un cessate il fuoco. Hamas fa sapere che risponderà «in modo ampio» nel caso in cui «l’occupazione israeliana dovesse compiere un omicidio», come quello nel 2018 del suo comandante militare Ahmad al Jabari. Il ministro della difesa israeliano Gantz – già capo di stato maggiore durante l’offensiva Margine Protettivo del 2014 – alza la voce ed è pronto a una ampia operazione militare. Gantz flette i muscoli anche perché Israele potrebbe tornare al voto nei prossimi mesi e ha bisogno di recuperare consensi. Carri armati israeliani ieri hanno colpito presunte postazioni Hamas e in serata i palestinesi hanno lanciato razzi verso Sderot.

 

«A complicare il quadro c’è ora la normalizzazione tra Israele ed Emirati e lo scontro intenso tra Abu Dhabi e i Fratelli Musulmani (movimento che ha partorito Hamas e che è sostenuto da Turchia e Qatar, ndr)», ci dice il giornalista, Aziz Kahlout. «Fatto l’accordo – aggiunge – gli Emirati si aspettano  che il governo Netanyahu contribuisca alla loro lotta contro movimenti e governi legati alla Fratellanza». Il loro interesse principale, spiega Kahlout, «è la Libia dove il cavallo sul quale avevano puntato, Khalifa Haftar, ha perso la corsa e vincitore è risultato l’esecutivo di El Sarraj, alleato della Turchia. Gaza controllata da Hamas perciò rischia di finire schiacciata da questo scontro».

 

A Gaza temono che Israele, per compiacere i nuovi alleati nel Golfo, raffreddi i rapporti che mantiene da anni dietro le quinte con il Qatar, che appoggia Hamas, e scelga la via della guerra al posto di un accordo per una tregua permanente.