Parigi. In attesa della 58. Biennale d’Arte di Venezia con novità significative nello scenario dell’arte africana, tra cui la prima partecipazione del Ghana con il padiglione curato dalla storica dell’arte, scrittrice e filmmaker Nana Ofosuaa Oforiatta Ayim (e la supervisione di Okwui Enwezor) dedicato ai lavori di sei grandi artisti – El Anatsui, Ibrahim Mahama, Selasi Awusi Sosu, Lynette Yiadom-Boakye, John Akomfrah e Felicia Abban, prima fotografa donna del Ghana che aprì il suo studio negli anni ’50, celebre anche per essere stata la fotografa personale del presidente Kwame Nkrumah – un’altra occasione per entrare in argomento è stata la seconda edizione di AKAA – Also Known As Africa, fiera di arte e design dedicata agli artisti africani e della diaspora che si è svolta al Carreau du Temple di Parigi a novembre scorso.

Una fiera che si avvale di una commissione internazionale di professionisti, tra cui Dominique Fiat, Elisabeth Lalouschek, Simon Njami e Azu Nwagbogu. Tra focus e mostre interessanti, da Roger Ballen che ha presentato la serie di collage realizzati con l’utilizzo di fotografia e disegno (Unleashed project, 2018) ai fotografi di studio più tradizionali, come il maliano Adama Kouyaté (1927) riscoperto dalla Galerie Jean Brolly (aprì il suo studio nel ’69 a Ségou diventando il testimone della vita dei suoi abitanti), anche due autori più giovani, tra i più interessanti: Saïdou Dicko (1979) e Joana Choumali (1974).

Nato a Déou in Burkina Faso (attualmente vive e lavora a Parigi), Saïdou Dicko è un artista autodidatta che spazia dalla pittura al video, dall’installazione alla fotografia. Ha cominciato a “collezionare” le ombre delle pecore che portava al pascolo all’età di cinque anni, quando era un pastore Fulani. L’ombra rimane la cifra espressiva di tutto il suo lavoro: nel 2006, un anno dopo aver cominciato a fotografare, vince il premio alla Biennale di Dakar Off ed è del 2007 la pubblicazione del volume Le voleur d’ombres (Africalia Editions & Roularta Books).

Nel contenitore AKAA ha presentato con la Artco gallery la serie The Shadowed People (2018) un’ulteriore declinazione del tema dell’ombra come metafora dell’umanità.

“Sono tutte fotografie a colori che scattato in luoghi lontani, dal Burkina Faso a New York, Rabat, le città del Congo… paesaggi urbani ma anche la natura.” – spiega l’artista – “Voglio mostrare la realtà attraverso l’aspetto documentario della fotografia. C’è anche l’idea della cartolina e della fotografia di studio. Poi ricompongo le immagini per raccontare altre storie. Uso il collage ritagliando le silhouette dei soggetti per esplorare l’immaginario collettivo tra luci e ombre, due aspetti complementari della vita. Anche quando ci sono i confini è il mio modo per parlare di speranza. L’uomo è nato per essere libero. L’umanità deve viaggiare, scoprire.”

Anche per l’ivoriana Joana Choumali (ha esposto nel Padiglione della Costa d’Avorio alla 57. Biennale d’Arte di Venezia) la fotografia è intesa come un viaggio che comincia dalla materia: chiffon e tulle dialogano con le sue immagini. Albahian (2018) nella lingua Agni (è quella parlata da suo padre che appartiene all’etnia Akan) vuol dire alba.

“Ho fotografato sempre con la prima luce del mattino,” – afferma Choumali – “aggiungendo strati alle fotografie. Strati di memoria della mia infanzia, sensazioni, suggestioni tra sogno e realtà. Invito la gente ad entrare nel mio mondo che è un viaggio introspettivo che riguarda l’accettazione e la scoperta di sé. Un percorso che parla di rinnovamento e rinascita.” Il tessuto bianco che protegge e allo stesso tempo opacizza l’immagine fotografica, lasciando in sospensione la vitalità del nuovo inizio a cui allude il titolo stesso del progetto, ha certamente un significato di purezza ma è anche la trascrizione della dimensione ovattata di un momento in divenire. “In Costa d’Avorio, come in altri paesi dell’africa occidentale, il clima è molto umido e si ha la sensazione di essere immersi in un contesto letteralmente sfocato,” continua. “Anche in questa serie, come nelle precedenti Ça va aller e Translation, c’è un rapporto molto intimo con il ricamo che mi riporta sempre all’idea di meditazione e femminilità. Per Ça va aller ho iniziato a ricamare perché, per ragioni di salute, non ero in grado di fotografare come ero abituata a fare. Ho iniziato il progetto nella mia camera da letto. È stato un lavoro molto intimo e calmo, in parte legato alla solitudine e fortemente connesso con la riconciliazione con me stessa. Quando ero giovane cercavo il riconoscimento, volevo essere ancora più brava dei fotografi uomini in quanto la professione del fotografo è considerata maschile. Non dico di aver cancellato la mia femminilità, ma l’ho messa da parte. Solo due anni fa ho scoperto che potevo essere semplicemente me stessa. Ricamo e tessuto mi hanno aiutata a rammendare delle parti di me che certe volte sono disconnesse, parti silenziose di cui ignoro in parte l’esistenza.”