L’imprevedibile è accaduto in Egitto. Nella notte tra venerdì e sabato (poche ore dopo che al-Sisi era partito per l’Assemblea generale Onu a New York) alcune migliaia di persone sono scese in strada in diverse città del paese per protestare contro il presidente.

Non succedeva da anni, da quando con il colpo di stato del luglio 2013 l’esercito aveva imposto nuovamente il pugno di ferro, vietando di fatto qualsiasi tipo di manifestazione. «Il muro della paura si è infranto di nuovo», è il commento di molti.

«Sisi, vattene!», «Noi non ce ne andiamo, al-Sisi deve andare», sono alcuni degli slogan che si possono ascoltare nei numerosi video diffusi sui social media. Ma anche il più classico «Il popolo vuole abbattere il regime», frase -simbolo dell’insurrezione del gennaio 2011 e di tutta la stagione delle rivolte arabe, è risuonato nelle strade del paese.

LE PROTESTE hanno coinvolto varie zone del Cairo, compresa l’iconica piazza Tahrir, ma anche Alessandria e città operaie come Mahalla al-Kubra (epicentro di lotte sociali dal 2007), Suez e Damietta, dove i manifestanti hanno abbattuto un cartellone che raffigurava il volto di al-Sisi, mentre a Port Said sono partiti nel pomeriggio di ieri.

Anche gli abitanti dell’isola di al-Warraq al Cairo si sono riversati in massa nelle strade. La loro battaglia contro lo sgombero (per una mega-speculazione edilizia voluta dall’esercito) è stata negli ultimi anni una delle poche mobilitazioni popolari che hanno tenuto testa al regime sfidandolo anche con proteste di piazza.

Secondo i resoconti della nottata gli assembramenti spontanei sarebbero stati repentinamente attaccati con i lacrimogeni dalle forze di sicurezza non appena i numeri iniziavano a crescere. Diversi corpi delle forze di sicurezza hanno presidiato strade e piazze al Cairo e in altre città, sparando lacrimogeni e facendo decine, forse centinaia, di arresti.

Secondo i dati raccolti da diversi avvocati e centri per i diritti umani e diffusi dal portale indipendente MadaMasr nella serata di ieri, sono centinaia le persone arrestate finora: tra i 200 e i 300 al Cairo, 50-100 ad Alessandria, un centinaio a Suez, mentre non si hanno notizie dalla provincia di Gharbeya, dove si trova Mahalla.

A far scattare la scintilla è stata un’oscura quanto carismatica ‘gola profonda’ che nelle ultime settimane ha risvegliato l’indignazione popolare latente svelando con una serie di video pubblicati online scandali che coinvolgono direttamente al-Sisi e la sua cerchia di gerarchi militari.

MILIONI DI DOLLARI di denaro pubblico spesi per costruire palazzi presidenziali, per accontentare i capricci della first lady o di un amico generale. Mohammed Ali, 43enne costruttore e aspirante attore, per oltre quindici anni ha ricevuto commesse e appalti dall’esercito. Poi a un certo punto ha smesso di essere pagato e così ha deciso di partire in esilio volontario a Barcellona. E di parlare.

«I video di Mohammed Ali si sono diffusi in modo rapidissimo, riflettendo la portata della rabbia popolare contro al-Sisi e le sue politiche, soprattutto per quanto riguarda la povertà – spiega al manifesto Bahey el-Din Hassan, direttore del Cairo Institute for Human Rights Studies – Tutti sanno che la corruzione è dilagante ma qui viene accusato direttamente il presidente e la sua famiglia».

I privilegi di al-Sisi e dei militari sono uno schiaffo in faccia al 60% di egiziani ridotti in povertà, a cui da anni viene chiesto di stringere la cinghia. Nella quasi totale assenza di mezzi di informazione liberi i video sono circolati in modo virale su Facebook e Whatsapp, suscitando forte scalpore.

E hanno iniziato a preoccupare il regime, al punto che lo stesso presidente ha sentito il bisogno di rispondere pubblicamente: «È vero, ho costruito palazzi presidenziali e continuerò a costruirli. Ma non sono per me, sono per il paese», ha detto davanti a una ‘conferenza di giovani’.

NEGLI ULTIMI VIDEO Ali aveva alzato il tiro, chiedendo ad al-Sisi di lasciare la poltrona entro giovedì. «Dimissioni o scendiamo in piazza», è stato l’hashtag lanciato (in poche ore diventato il primo in Egitto) chiamando gli egiziani a manifestare in massa nella giornata di ieri.

«Non possono arrestare un intero popolo», ha detto, chiedendo anche la liberazione dei prigionieri politici e di tutti i militari e gli ufficiali delle forze di sicurezza arrestati in questi anni per la loro opposizione ad al-Sisi. Pochi pensavano che sarebbe realmente successo qualcosa e invece a sorpresa, dopo la finale di coppa tra le due principali squadre di calcio egiziane, piccoli gruppi hanno iniziato a scendere in strada e intonare slogan.

Ma stavolta anziché gli attivisti è stata la gente comune a mobilitarsi. Tra le opposizioni c’è entusiasmo ma anche cautela. La piazza è un rischio troppo grande, che può costare inutili sacrifici in assenza di un vero movimento e di un chiaro progetto politico.

«Non sappiamo esattamente cosa stia succedendo», scrivevano ieri i Socialisti Rivoluzionari prima che scoppiassero le proteste, ma «la pressione sociale è ai massimi» e compito degli attivisti ora è «sfruttare questo momento e ampliare uno spazio da cui poter ricominciare a fare lotta politica», tenendo a mente gli errori del passato. «Le dimensioni reali di questa rabbia sono molto più grandi anche delle manifestazioni di ieri», ha scritto Mostafa Bassiouny, giornalista e militante di sinistra.

Secondo fonti governative citate da Mada Masr venerdì al-Sisi avrebbe persino valutato l’ipotesi di rinunciare al viaggio a New York, preoccupato dalla «campagna di destabilizzazione» in atto. Negli ultimi giorni il presidente avrebbe tenuto una serie di incontri con i vertici dell’esercito e dei vari corpi di intelligence per assicurarsi che «nessuno scendesse in strada» e valutare il da farsi. Il regime è in stato di allerta, ma forse c’è anche chi pensa di approfittare della situazione per liberarsi di un presidente divenuto troppo ingombrante.

«È PROBABILE che Mohammed Ali sia in contatto con l’opposizione ad al-Sisi dentro gli apparati dell’esercito e di sicurezza – spiega ancora Bahey el-Din Hassan – Al di là di ciò che accadrà nei prossimi giorni, una cosa è chiara: il conflitto interno al regime è continuo e al-Sisi non ha mai garantito e mai garantirà stabilità. Le implicazioni di ciò che sta accadendo non saranno limitate all’Egitto, ma avranno ripercussioni sull’Europa e sul resto di Medio Oriente e Nord Africa».

Altri «Venerdì della rabbia» nelle prossime settimane probabilmente ci saranno, ma non sono da escludere manovre di palazzo. Quella in atto è una genuina mobilitazione popolare (anche se per ora i numeri sono modesti), ma anche uno scontro tra pezzi dello Stato.

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Social rivoluzionati

La protesta in Egitto corre sui social, in un intreccio continuo tra piazza virtuale e piazze reali che ha caratterizzato sin dal 2011 la rivolta. Anche stavolta l’appello a manifestare contro il regime parte da internet, ma intercetta un diffuso malessere e desiderio di ribellione.

Lunedì 16 settembre l’hashtag «Ora basta, Sisi» è diventato in poche ore il primo in Egitto e il sesto al mondo, segnalando di aver raggiunto una massa critica molto al di là dei circoli di attivisti. Ieri «Sisi vattene» e «Piazza Tahrir» hanno invaso Twitter, insieme alle immagini degli egiziani che invadevano le strade.