Incontriamo Noo Saro-Wiwa a Milano, dove è invitata al Festival del Cinema africano, d’Asia e dell’America Latina (Fescaal), e la riconosco immediatamente in mezzo alla folla per la sua straordinaria somiglianza con il padre, lo scrittore nigeriano Ken Saro-Wiwa che venne assassinato nel 1995 dal regime dittatoriale di Sani Abacha.

Come il padre, Noo è piccola di statura, le membra irrequiete, il sorriso che affiora rapido nel volto color bronzo e quasi luminoso, una simpatia naturale nel gesto e nel tratto. Parla volentieri, con lampi negli occhi vivaci, passando disinvoltamente da un argomento all’altro e accettando di raccontare di sé e di quella sua storia personale che traspare insistente nel suo libro In cerca di Transwonderland. Il mio viaggio in Nigeria, tradotto in Italia nel 2015 dall’editrice 66thand2nd.

Osservo che si tratta di un bel libro, in cui la ricerca della memoria di sé bambina, del padre scomparso, del paese perduto si maschera dietro i ritmi del racconto di viaggio, invitando il lettore alla graduale scoperta di una Nigeria tridimensionale dove la convulsa vivacità della realtà contemporanea sprofonda e si decostruisce nella prospettiva del ricordo, restituendo istantanee di un tempo ormai lontano. Un’animata, attraente ripresa del classico tema postcoloniale del retour au pays natal che, dopo Aimé Césaire, ha dato così intriganti versioni.

Lei, laureata in geografia, scrive narrativa di viaggio e gira il mondo per descriverlo nei suoi affascinanti resoconti. Come mai ha atteso tanto a lungo, sino al 2008, per ritornare in quella Nigeria da cui mancava dalla morte di suo padre?
Avevo bisogno di tempo, un tempo lungo per guarire dal dolore e dalle ferite prima di ritornare a quella che era stata la mia casa. E forse sentivo anche la necessità di essere più matura per affrontare un incontro terribilmente difficile con le ombre del passato. Avevo già fatto parecchi viaggi in Africa, e a un certo punto è nata in me una curiosità di vedere la Nigeria, o meglio di rivederla; e mi sono detta, perché no? Quando ho deciso di partire, nel 2008, il paese aveva avviato già da otto anni il suo cammino verso la democrazia, io ero desiderosa di capire come procedessero le cose, e l’andarci non presentava più alcun rischio per me. Allo stesso tempo, non v’era ancora il pericolo che costituisce oggi Boko Haram e che forse mi avrebbe impedito di spingermi in certe zone islamiche del nord, ad esempio a Maiduguri.

Le pagine che descrivono il suo incontro con la Nigeria islamica del nord sono particolarmente belle e rivelano una sorta di fascinazione con i luoghi e le culture. Lei guarda la città di Kano con occhi incantati, ne ammira le architetture e ne contempla con piacere l’eleganza raffinata, e tuttavia rimane estranea e distante, quasi fosse in un paese straniero; è così che si sentiva?
In un certo senso sì, mi sentivo straniera. La differenza linguistica – lì si parla hausa, lingua che non conosco –, il diverso modo di vestire e di comportarsi, la straordinaria eleganza delle classi aristocratiche, con le loro esibizioni a cavallo, i loro abiti sontuosi, il portamento altero: tutto congiurava per isolarmi, insieme alla pervasiva impronta islamica. A ciò si aggiungano i costumi di vita assai diversi dal resto della Nigeria, specialmente per le donne, che vivono una vita limitata e da recluse, in contesti famigliari poligamici e fortemente patriarcali. Eppure, sono stata colta di sorpresa dalla bellezza di quella regione, ne ho subìto il fascino estetico, che è innegabile.

E come si spiega, secondo lei, che proprio in questo ambiente sociale sia sorto il movimento Boko Haram?
Credo che sia il risultato direi naturale, e comunque diretto, del cattivo governo del paese e che rappresenti la risposta dei giovani ad esso. Giovani chiusi in una via senza uscita, senza sbocco di crescita e di istruzione, schiacciati da un patriarcato oppressivo ove la ricchezza e il potere sono nelle mani dei maschi anziani. In un certo senso, Boko Haram è il parallelo settentrionale di quanto accade nel sud della Nigeria, dove la militanza antipolitica è forte tra i giovani: sebbene là assuma forme diverse. E il fatto che Boko Haram aggredisca particolarmente le donne, peggiorando la loro già precaria situazione, testimonia la frustrazione maschile che non trova altra voce se non quella di un fondamentalismo islamico tutto particolare, molto locale nell’ispirazione e nelle motivazioni. La battaglia contro l’istruzione delle donne testimonia le paure nascoste dei giovani maschi, poiché le donne che raggiungessero una parità sottrarrebbero loro un territorio su cui esercitare il comando, anzi, il dominio.

Cosa può fare il governo federale a questo proposito? Le recenti elezioni politiche avevano dato delle speranze di cambiamento, con la candidatura di Peter Obi, non le pare?
Assolutamente sì, Obi prometteva un mutamento di rotta anche nei confronti del regime di corruttela che pervade la Nigeria; e credo che avrebbe potuto vincere le elezioni. Ma è sempre difficile prevedere come voteranno i nigeriani, che si orientano molto su base etnica. Ad ogni modo, l’emergere di un candidato come Obi ha dato una scossa al sistema bipartitico nigeriano e ha segnato comunque una novità non trascurabile, dato che è stato molto votato dai giovani, e sostenuto attraverso la rete di Internet. Spero che sentiremo ancora parlare di lui, perché è una persona capace, ed è giovane.

Lei milita nei movimenti ecologisti, e suo padre Ken Saro-Wiwa si era battuto contro il disastro ambientale causato dal dissennato sfruttamento petrolifero nell’area del Delta del Niger, patria del popolo ogoni cui anche lei appartiene. A che punto è ora questa lotta in Nigeria?
La situazione è in qualche modo migliorata. I grandi gruppi petrolieri stanno gradatamente disinvestendo mentre nella popolazione si afferma una coscienza ambientale. Certo, in Nigeria entrerà meno denaro, ma cresceranno le opportunità di uno sviluppo pulito, puntando sulle fonti di energia rinnovabili, in particolare dei sistemi a pannelli solari che assicurano una produzione di corrente elettrica e allo stesso tempo creano nuove aperture occupazionali. La transizione sarà senz’altro difficile, ma la strada è quella. È importante che di ciò si rendano conto i giovani, che oggi emigrano per inseguire il miraggio di migliori prospettive di vita e di lavoro.

A proposito di migrazioni, cosa pensa della politica del governo britannico in materia? Lei vive da molti anni a Londra, dove ha studiato al glorioso King’s College, e fa parte della generazione multiculturale che ha così profondamente mutato il volto della Gran Bretagna.
L’attuale primo ministro Rishi Sunak non fa che perseguire le stesse politiche del suo predecessore Boris Johnson, ispirate a uno sfrenato neoliberismo economico. Le dichiarazioni in materia di migrazioni sono soltanto una mascheratura, una messa in scena per distrarre l’attenzione dalla lotta di classe, la class warfare che il partito conservatore sta di fatto conducendo contro le classi meno abbienti. Per fortuna in Gran Bretagna vige un sistema democratico che sinora ha sempre reso possibile l’avvicendamento al potere: ed è certo che alle prossime elezioni vincerà il partito laburista, che secondo me avrebbe potuto vincere anche prima, non fosse stato per l’insipienza di Jeremy Corbyn. Ma la Gran Bretagna sta assorbendo continue migrazioni – di cui del resto ha bisogno – e tutto questo clamore intorno agli sbarchi lungo la Manica, e alle misure demenziali di rimpatrio verso il Rwanda, sono diversivi per far sì che non si parli delle politiche economiche dei tories.