«Non sappiamo dove sia Ashraf Ghani», riferisce a il manifesto una fonte diplomatica di Tashkent, smentendo così l’ipotesi che il paese centroasiatico abbia accolto l’ex presidente afghano scappato da Kabul domenica 15 agosto mentre i Talebani sfondavano le porte della capitale. Una fuga in elicottero, le valigie piene di oro e valuta estera.

Bagaglio in eccedenza, in parte abbandonato sulla pista di decollo. Fingendo di non essere preoccupato per la propria vita, ma di scappare per il bene del popolo, Ghani aveva scritto su Facebook: «Per evitare spargimenti di sangue ho pensato che sarebbe meglio andarsene».

Le autorità di Tashkent sono ovviamente preoccupate per quello che accade in Afghanistan, con cui condividono 107 chilometri di confine. Inoltre, nello scacchiere afghano c’è una componente uzbeka: è il 9% della popolazione afghana, di lingua turca e di fede musulmana sunnita della scuola hanafita e quindi tollerante, segue regole sociali tribali e seminomadiche. La minoranza uzbeka trovò una propria espressione politica quando il generale e signore della guerra Abdul Rashid Dostum fece defezione dal regime di Najibullah e prese il controllo delle province del nord.

Domenica il ministero della Difesa dell’Uzbekistan ha riferito di aver abbattuto un aereo militare afghano che stava cercando di entrare nello spazio aereo uzbeko senza avere le autorizzazioni necessarie. Non è chiaro quanti siano i morti e i sopravvissuti, ma nella provincia meridionale di Surkhondaryo (confinante con l’Afghanistan) il medico Bekpulat Okboyev ha riferito all’agenzia Afp che domenica sera «sono stati ammessi in ospedale due pazienti con l’uniforme militare afghana. Uno di loro aveva un paracadute e aveva diverse fratture». Sempre domenica, le autorità dell’Uzbekistan hanno reso noto che «84 soldati afghani sono stati arrestati dopo che hanno attraversato il confine».

L’ambasciata dell’Uzbekistan a Kabul resta aperta, così come il consolato di Mazar-e Sharif. Il ministero degli Esteri dell’Uzbekistan segue «da vicino l’evoluzione della situazione in Afghanistan, appoggiamo le dichiarazioni delle diverse forze afghane a proposito della loro volontà di formare un governo inclusivo. Auspichiamo un accordo di pace nell’ambito dei colloqui di Doha e un passaggio di poteri pacifico sulla base del consenso generale e nel rispetto del diritto internazionale».

Le autorità di Tashkent si augurano che vi siano «le condizioni per formare uno Stato forte e capace». In merito ai rapporti bilaterali, restano quelli di «buon vicinato sulla base della non-interferenza negli affari interni». «Manteniamo contatti stretti con i rappresentanti dei Talebani per assicurare la calma e la protezione dei confini, senza consentirne la violazione». Controllare i flussi è una priorità per i paesi confinanti con l’Afghanistan, in primis l’Iran che in questi decenni ha accolto quattro milioni di rifugiati afgani.

L’Uzbekistan sta seguendo una traiettoria decisamente diversa dall’Afghanistan: è un paese laico, che convoglia le proprie energie verso lo sviluppo economico ed è in grado di attrarre investitori stranieri, anche italiani, in molteplici settori. Secondo l’analista russo Vladimir Paramonov, direttore del think tank Central Eurasia di Tashkent, «è presto per dirlo, ma con la vittoria dei Talebani gli scenari che si offrono all’Asia Centrale, e in particolare all’Uzbekistan, potrebbero essere positivi. Molto dipenderà da che cosa farà il Pakistan, che appoggia i Talebani ed è l’alleato strategico della Cina, così come dal comportamento dei nuovi governanti di Kabul e dai piani strategici per la ricostruzione del paese».

Le variabili sono molteplici, l’impressione è che molti si rallegrino per la sconfitta degli Stati uniti, senza per questo trascurare la necessità di proteggere l’Asia centrale dal contagio jihadista. A proposito dei cosiddetti foreign fighters, lo scorso 13 luglio il ministro degli Esteri dell’Uzbekistan Abdulaziz Kamilov aveva spiegato che, «come in Europa, anche in Uzbekistan vi sono cittadini partiti per unirsi a gruppi terroristici nelle zone di guerra. Al pari degli europei, abbiamo avuto la necessità di assicurare il loro rimpatrio nel rispetto della sicurezza nazionale e dei diritti umani, fornendo assistenza medica e psicologica. Dal 2019 abbiamo dato avvio a quattro operazioni Mehr (Pietà) e oltre 300 donne e bambini sono rientrati dalla Siria e dall’Iraq. Nell’ultima operazione sono tornati dall’Afghanistan 24 donne e bambini».