Ci aveva sperato il presidente Piñera che tutto potesse tornare alla normalità. Che cambiando governo, revocando lo stato d’emergenza e irrobustendo il suo pacchetto di misure sociali, i cileni, stanchi e soddisfatti della monumentale prova di forza data venerdì scorso, facessero finalmente ritorno a casa.

IL FATTO È CHE, per quanto abbia detto e ripetuto di aver compreso il messaggio della popolazione, il presidente non lo ha ascoltato affatto. Altrimenti, avrebbe capito subito che far dimettere tutti i ministri senza andarsene lui per primo non sarebbe servito a nulla, come pure promettere misure palliative di fronte a rivendicazioni mirate invece alla liquidazione totale del regime ereditato dalla dittatura.

È così che, dopo la più grande manifestazione della storia del Cile – che tutta la classe politica al completo, cominciando proprio da Piñera, si è affrettata ad applaudire e a celebrare come se non c’entrasse nulla con le proteste – i manifestanti non ne hanno voluto sapere di lasciare le piazze. Ma, al contrario, sono tornati lunedì a manifestare in Plaza Italia, mentre in migliaia si sono riuniti di fronte al palazzo della Moneda, la sede del governo, per esigere la rinuncia di Piñera, di cui una parte dell’opposizione chiede ora l’impeachment.

All’interno del palazzo, intanto, giurava il nuovo consiglio dei ministri, di cui 16 riconfermati e 8 nuovi, come Gonzalo Blumel, chiamato a sostituire al ministero dell’Interno l’ormai impresentabile Andrés Chadwick, considerato tra i massimi responsabili della repressione, e Lucas Palacios, subentrato come ministro dell’Economia a Juan Andrés Fontaine, noto per aver invitato i cileni, dopo l’aumento del prezzo del biglietto della metro, a svegliarsi prima per pagare un biglietto ridotto.

Il nuovo governo «avrà la missione di ascoltare e dialogare per costruire un Cile più giusto», ha annunciato Piñera, il quale, in base agli ultimi sondaggi, è diventato il presidente con il più basso livello di approvazione dal ritorno della democrazia, pari al 14%, battendo così il precedente record negativo del 18% segnato nel 2016 dalla presidente socialista Michelle Bachelet.

NEPPURE IL NUOVO GOVERNO avrà un attimo di tregua: nuove mobilitazioni sono state infatti annunciate per tutta la settimana, sotto l’hashtag #EstoNoHaTerminado, non è finita qui. Ieri mattina è stata la volta anche delle comunità mapuche, che hanno dato vita a Temuco, nell’Araucanía, a una marcia in solidarietà al popolo cileno in lotta. Alla famigerata legge antiterrorista promulgata da Pinochet e tuttora in vigore nei giorni scorsi non erano mancati riferimenti dei manifestanti, con messaggi del tipo «Perdonateci, mapuche, per non avervi creduto. Ora sappiamo chi sono i terroristi».
Si attende invece per oggi lo sciopero nazionale convocato da un centinaio di organizzazioni e movimenti sociali aderenti alla Mesa de Unidad Social, con lo slogan «Ci siamo stancati, ci siamo uniti!», l’inizio, forse, di un processo di coordinamento delle diverse forze popolari ora più che mai necessario in vista dei prossimi passi.

L’INTERROGATIVO È su come andare avanti, ma è evidente che la risposta non può che venire dall’insieme degli attori in campo, molti dei quali, per nulla interessati a manovre parlamentari come l’impeachment, vorrebbero lo sciopero generale a oltranza fino alla caduta di Piñera e la creazione di un’Assemblea costituente. Diverse forze popolari si stanno già attivando, avviando una sorta di processo popolare costituente con assemblee territoriali e consulte (i cosiddetti cabildos), allo scopo di raccogliere le proposte della popolazione per un nuovo modello democratico e partecipativo.