Ieri mattina gli israeliani si sono svegliati con la prima buona notizia da mesi: la liberazione di altri due ostaggi che hanno potuto far ritorno alle rispettive famiglie dopo oltre quattro mesi di prigionia. Insieme a un po’ di sole la notizia riaccende un barlume di ottimismo nell’inverno più nero della storia del paese e, a quanto si dice, anche il più piovoso dal 1994.

Frutto di un’operazione congiunta di esercito e Shin Bet, l’operazione di salvataggio è stata osannata dai media israeliani senza sosta lungo l’intera giornata di lunedì.

MA CON IL PASSARE delle ore, quello che sembrava un umano bisogno di celebrare una notizia positiva che sfida la già troppo lunga lista di vittime, ostaggi, feriti, traumatizzati, sfollati, manifestanti, ha assunto sempre più il sapore sgradevole della propaganda.

L’ascoltatore vorrebbe concedersi il lusso di sperare, di immaginare un futuro sicuro, di assistere al ritorno degli altri ostaggi, di vedere gli sfollati tornare a casa senza paura, di poter eleggere un nuovo governo, di veder ripartire l’economia, di camminare per le vie della propria città senza paura di essere centrati da un missile, e l’elenco è ancora lungo.

Tuttavia non basta trasmettere i commoventi abbracci tra Fernando Simon Marman e Louis Har e le loro rispettive famiglie per giustificare la prosecuzione della guerra, per credere che la distruzione di Gaza sia necessaria per assicurare il futuro del paese, per convincere che sarà una nuova carneficina ad assicurare il ritorno degli altri ostaggi e che la pressione militare piegherà Hamas facendogli digerire anche le condizioni per il riscatto dei prigionieri.

Ma soprattutto non basta il successo di questo blitz per restituire agli israeliani la fiducia nelle istituzioni che li hanno abbandonati molto prima del 7 ottobre e che, pur affermando il contrario, continuano a metterli a repentaglio su tutti i fronti.

Non dopo quattro mesi da incubo in cui l’antisemitismo è alle stelle, Israele è stato accusato di genocidio, investitori e turisti se la sono data a gambe e il settore della salute mentale è al collasso.

SFRUTTARE al massimo la riuscita di quest’azione non invertirà neppure la rotta che vede sempre più cittadini desiderare un cambiamento. Lo si vede dalle manifestazioni per il rilascio degli ostaggi e l’urgenza di un accordo, per il cessate il fuoco e per le dimissioni di Netanyahu e l’anticipo delle elezioni.

Lo si vede anche dal successo delle iniziative di solidarietà congiunta di Standing Together, il movimento di israeliani ebrei e palestinesi che si è aggiudicato numerosi seggi all’interno delle recenti elezioni universitarie e ai cui incontri giungono sempre più persone che non credono nella violenza come soluzione ma chiedono una soluzione politica.

Lo si vede dagli attivisti che mettono a repentaglio la loro vita per affiancare i pastori palestinesi e gli abitanti dei villaggi della Cisgiordania perseguitati dai coloni legittimati dalle politiche di Ben Gvir e dei suoi.

Lo si vede dal manifesto del secondo convegno della «Sinistra di fede» il cui scopo, come recita l’invito al pubblico, è quello di «rafforzare, proprio ora, la voce ebraica che lotta per la pace proprio all’ombra della guerra a Gaza». E speriamo lo si vedrà anche nelle prossime elezioni amministrative indette per la fine di febbraio.

CERTAMENTE siamo ancora molto lontani dall’invertire la rotta della disumanizzazione, modificare le coscienze e cambiare la cultura della violenza sostituendo a concetti quali possesso, maggioranza e sovranità, altri come relazione e giustizia.

Ma se c’è un atto di fede che gli israeliani possono fare non è certo quello di credere ingenuamente alle parole di propaganda del governo, bensì piuttosto nella possibilità e necessità di un diverso orizzonte politico di esistenza condivisa, indipendente dalla struttura di potere coloniale.