Insieme a Honduras e Guatemala, El Salvador condensa in questo triangolo del Centro America il tasso di violenza più alto del mondo. Ma se l’aspettativa di vita della popolazione media nel Paese è di 74 anni, quella di una persona transgender è di appena 33.

Ha 33 anni Britany Castillo, un’attivista transgender arrivata in Italia insieme a una delegazione del Centro America per prendere parte alle manifestazioni previste oggi a Roma in occasione del Transgender day of remembrance, che celebra il ricordo delle vittime uccise in tutto il mondo.

Il progetto, Centroamerica Diversa, è co-finanziato dall’Ue e promosso da Arcigay e Terra Nuova.

El Salvador è un Paese democraticamente instabile, dove l’impunità per gli abusi del governo è la norma e le gang esercitano un controllo territoriale capillare, commettendo estorsioni, abusi e omicidi. Britany è nata nel comune di Guazapa, un’area rurale interna dove, ancor più che nel resto del Paese, si respira un regime profondamente tradizionalista e religioso, in cui il binarismo di genere è un assetto consolidato. «Ho sempre saputo di essere una donna – racconta l’attivista -, ma quello che mi insegnavano in famiglia andava contro quello che sono».

La transizione vera e propria arriva dopo 20 anni di inibizione, trascorsi nel segno di discriminazioni e molestie, causa di un’educazione lacunosa e continue barriere lavorative. Una condizione comune alla maggior parte delle donne trans del Paese, che diventano facile bersaglio del commercio sessuale.

«Spesso sono cacciate da casa già da giovanissime e non possiedono i mezzi per mantenersi, perché hanno difficoltà nell’essere assunte, ricevere prestiti, avviare attività proprie. Entrare in questo circuito di illegalità diventa una scelta obbligata» spiega. In assenza di una legge che regoli il sex working, molte donne trans vengono abbandonate nelle mani delle gang con cui paradossalmente si ritrovano costrette a condividere questo stato di clandestinità.

Lo sfruttamento non è solo sessuale, perché «molte vengono obbligate a trasportare droga o diventano vittime di tratta. Tutte, poi, devono pagare un tributo alla gang del proprio quartiere in cambio di protezione dagli attacchi delle altre bandias».

Se gli unici a proteggerle sono i loro stessi aguzzini, è perché i pericoli maggiori arrivano dalle forze di polizia. In un rapporto del 2017, le autorità hanno riconosciuto le violenze commesse dai funzionari di sicurezza – colpevoli di «torture, trattamenti inumani, uso eccessivo della forza, arresti arbitrari» dice la nota – e hanno segnalato 692 casi di violenza tra il 2015 e il 2019.

«In El Salvador – dice l’attivista – i crimini d’odio non vengono investigati, nonostante una legge del 2015 lo preveda. Lo Stato è in debito nei nostri confronti». Le vittime di omicidio, che portano spesso sui loro corpi i segni di torture, rimangono senza giustizia. La prima condanna per l’uccisione di una persona transgender, Camila Díaz Córdova, si ha solo nel 2020, quando tre agenti di polizia vengono dichiarati colpevoli.

L’incontro tra Britany e Mónica Linares, direttrice dell’associazione Aspidh, per cui Britany lavora oggi come attivista, le ha permesso di accettare ed esprimere la propria identità di genere, ma anche di proteggersi da questo sistema di violenza.

In quegli anni l’organizzazione si occupava di prevenzione contro l’Hiv, largamente diffusa tra le donne trans, che non hanno, però, libertà di accesso alle cure sanitarie. Anche la transizione fisica è un percorso affrontato senza supporto medico professionale.

«Negli anni 2000 – racconta – per ottenere forme femminili ci si iniettava sostanze artificiali altamente dannose. Con il tempo si è passate agli ormoni. È un passaparola: una compagna sperimenta delle cose e, se vanno bene, le consiglia alle altre». Oltre che dal benessere psicologico e fisico, risultare più femminili è un bisogno che nasce anche dalla necessità di sfuggire alle discriminazioni. «Le donne trans sono obbligate a rafforzare il binarismo di genere che vorrebbero decostruire» dice Britany.

La sicurezza delle persone transgender passa anche da documenti d’identità che rispecchino il genere e il nome con cui si identificano. Un riconoscimento che Aspidh e altre 5 organizzazioni dal 2014 chiedono al governo.