La 98esima divisione dell’esercito israeliano è uscita da Khan Yunis dopo mesi di attacchi con la copertura dell’aviazione. Si è lasciata alle spalle una nuvola di polvere che ha avvolto e nascosto per qualche ora la distruzione del secondo centro abitato per importanza della Striscia di Gaza, fino al 6 ottobre scorso abitato da 400mila uomini, donne e bambini. La città che prende il nome dal caravanserraglio costruito dall’emiro Yunus an-Nuruzi, non c’è più. «È distrutta al 90%, irriconoscibile, sono state spazzate via anche le infrastrutture pubbliche, le strade e intere aree», ha riferito una troupe di Al Jazeera. Alcuni sfollati giunti da Rafah e altre località sperando di ritrovare ancora in piedi, danneggiata ma non distrutta, la propria abitazione, hanno detto che non riuscivano a riconoscere le strade dove avevano vissuto per tutta la vita. Maha Thaer, 38 anni, madre di quattro figli, ha detto a una agenzia di stampa che «la distruzione a Khan Yunis è ovunque, e anche l’odore della morte…Non è rimasto nulla, gli edifici residenziali sono stati distrutti, anche le strade con i bulldozer e tutti gli alberi sono stati sradicati…Ho visto gente tirare fuori dalle macerie i cadaveri, uccisi nei precedenti bombardamenti… non c’è più la città, solo rovine, non ho potuto trattenere le lacrime». Thaer tornerà nella sua abitazione. «Non ci sono più le finestre e i muri ma tornerò a casa mia, è comunque meglio di una tenda». Altri invece non andranno a Khan Yunis, almeno per ora. Non si fidano, temono che le truppe israeliane rientrino nella città all’improvviso. Preferiscono stare nelle tendopoli a Rafah, al confine con l’Egitto, sperando che Israele non attacchi anche quella città, come minaccia ogni giorno il premier Netanyahu deciso ad andare avanti fino in fondo «perché la vittoria totale è a un passo». Ieri sera ha confermato che l’attacco a Rafah si farà e che «è stata fissata una data». In questo modo Netanyahu ha placato il ministro della Sicurezza, Itamar Ben Gvir, che aveva minacciato di far cadere il governo se non ci sarà «un attacco ampio a Rafah per sconfiggere Hamas». Se tra i motivi del ridispiegamento dell’esercito a Gaza c’è anche quello di spingere gli sfollati ora a Rafah, o una parte di essi, verso Khan Yunis, allora i comandi militari hanno fallito. La violenza degli attacchi non ha risparmiato nulla, neppure gli ospedali Nasser e Amal, e la città in macerie non può accogliere i suoi vecchi abitanti.

L’arretramento delle truppe di occupazione non significa che i raid siano terminati. Al contrario, le forze israeliane ora posizionate sulle linee di demarcazione, ad eccezione di un battaglione dentro Gaza, restano pronte a lanciare nuovi attacchi. Come è avvenuto a nord della Striscia. Anche lì c’era stato il «ritiro», circa tre mesi fa. Poi a metà marzo, all’improvviso, è scattato un attacco devastante nell’area dell’ospedale Shifa di Gaza city contro, ha detto un portavoce militare, combattenti e comandanti di Hamas. Il complesso medico è uscito in gran parte distrutto dall’assalto in cui sono stati uccisi centinaia di civili e uomini del movimento islamico. Ieri le squadre di soccorso continuavano a recuperare cadaveri intorno allo Shifa. E corpi senza vita sono stati estratti anche dalle macerie di Khan Yunis. Almeno 62 secondo il reporter e blogger Younis Tirawi. Diversi altri sono stati ritrovati nel sobborgo di Hamad city. La Striscia di sangue in ogni caso continua ad allungarsi. Testimoni riferivano ieri che nell’area di Mawasi (Khan Yunis) un tank ha aperto il fuoco uccidendo una intera famiglia, la Ammar: padre, madre e sette figli. Altri civili, secondo fonti locali, sono stati uccisi nel distretto di Deir al Balah. Trentadue palestinesi sono stati uccisi in tutta Gaza tra domenica e lunedì, portando il bilancio totale delle vittime a 33.207.

Gli analisti non credono ai «grandi risultati» ottenuti dalle forze armate israeliane in sei mesi di offensiva a Gaza. Amos Harel ha scritto su Haaretz che i comandi militari, si vantano esageratamente dei risultati ottenuti nella loro campagna a Khan Yunis. A ben vedere, aggiunge Harel, gli obiettivi veri dell’operazione non sono stati raggiunti: i capi Hamas, come Yahya Sinwar e Muhammad Al-Deif, sono vivi e liberi e non ci sono stati progressi significativi nella ricerca degli ostaggi israeliani. L’analista prevede tre scenari possibili per il futuro: una escalation verso la guerra con Hezbollah in Libano e con l’Iran, progressi nei negoziati con Hamas e l’invasione di Rafah.

Il portavoce del ministero degli Esteri del Qatar, Majed Al Ansari, ieri si è detto «incoraggiato» dai colloqui al Cairo su tregua e scambio di prigionieri. Israele e Hamas invece smentiscono i «grandi progressi» di cui ha parlato in particolare la rete egiziana Qahera Tv. Le due parti restano profondamente divise sul ritorno degli sfollati alle loro case. Israele, secondo alcune fonti, autorizzerà il rientro nel nord solo a 60.000 palestinesi – e non ai maschi in «età da combattenti» – dopo controlli accurati ai posti di blocco. Su Netanyahu però crescono le pressioni interne favorevoli a uno scambio tra ostaggi a Gaza e prigionieri palestinesi in carcere in Israele. Il capo dell’opposizione, Yair Lapid, si è detto pronto a garantire i voti del suo partito alla Knesset pur di favorire un compromesso con Hamas che riporti a casa gli ostaggi. Da tempo si discute di sei settimane di tregua – temporanea – in cambio del rilascio di 40 ostaggi. Da qualche giorno anche di un breve cessate il fuoco «umanitario» per l’Eid el-Fitr, la festa islamica al termine del Ramadan previsto questa sera. Ieri fonti di Hamas hanno detto ad Al Jazeera che Usa ed Egitto propongono in una prima fase il rilascio di 900 prigionieri palestinesi – tra cui 100 che stanno scontando l’ergastolo – e un accordo per i civili sfollati senza limiti.