«Non abbiamo modo di sconfiggere Hamas senza entrare a Rafah ed eliminare ciò che resta dei battaglioni che si trovano lì». A Blinken «ho detto che spero che lo faremo con il supporto degli Stati uniti. Ma se dobbiamo – lo faremo da soli». Il conciso comunicato del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu rappresenta un’ulteriore e spregiudicata escalation del confronto con lo storico alleato statunitense, quasi un invito a mostrare le carte, evidenziando una ferma indifferenza nei confronti dell’opposizione americana all’andamento dell’operazione militare a Gaza. Una posizione, quella del premier, per nulla diversa da quella espressa solo con meno acrimonia dal suo oppositore Benny Gantz: «Gli ho comunicato – ha scritto su X, aprendo a Blinken solo (e solo a parole) sull’ingresso nella Striscia di più aiuti umanitari – l’imperativo di completare la missione a Gaza, Rafah inclusa»

IN EGITTO il giorno prima, giovedì, nel corso di una conferenza stampa con il suo omologo egiziano Sameh Shoukry, Antony Blinken aveva dettagliato l’opposizione Usa affermando a lettere sempre più chiare, attribuite direttamente anche al presidente Joe Biden: entrare a Rafah «sarebbe un errore». Valutazione che ha ripetuto tre volte nel corso dell’incontro. «Non c’è modo per i civili ammassati a Rafah di mettersi in salvo. E per coloro che inevitabilmente rimarrebbero lì si profilerebbe un disastro umanitario».

Parlando con i giornalisti ieri delle «oneste conversazioni» avute a Tel Aviv con Netanyah il presidente Isaac Herzog e il gabinetto di guerra – nel corso della sua sesta visita in Israele dall’inizio del conflitto – Blinken ha aggiunto che «una operazione militare su vasta scala a Rafah» non è il modo per garantire la sicurezza di Israele. «Rischia di uccidere altri civili. Rischia di scatenare il caos nella distribuzione di assistenza umanitaria». E «rischia di isolare ulteriormente Israele dal resto del mondo e nel lungo periodo di mettere in pericolo la sua sicurezza».
Poco prima di imbarcarsi su un volo diretto in Qatar, dove stanno per ripartire i negoziati, ha anche condannato come «cinico» il veto posto da Russia e Cina sulla risoluzione per il cessate il fuoco presentata dagli Stati uniti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, che il giorno prima in Egitto Blinken aveva presentato come un elemento di speranza.

NEL CORSO della missione mediorientale di Blinken – rivela Axios -, a Washington il suo dipartimento di Stato ha ricevuto da Israele un documento in cui si «certifica» che le armi fornite dagli Usa a Tel Aviv non vengono impiegate per azioni in violazione delle leggi internazionali e statunitensi sui diritti umani. La «certificazione» firmata dal ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant era stata chiesta agli alleati dal governo statunitense entro questa domenica, e sulla carta a essa è legata la continuazione degli aiuti Usa a Israele. Se le valutazioni di Tel Aviv venissero ritenute «lacunose» – o in parole povere false – dalla revisione che il dipartimento di Stato è incaricato di condurre entro maggio, Biden potrebbe decidere di sospendere l’invio di armamenti a Israele. Alla lettera, confermano delle fonti del Washington Post, farà seguito una delegazione di ufficiali israeliani, convocata dallo stesso presidente, per discutere dell’offensiva in corso.

MENTRE BLINKEN è diretto a Doha, due comunicati quasi identici del portavoce del dipartimento di Stato Matthew Miller a seguito dei colloqui con Netanyahu e Herzog riportano, in versione edulcorata, le posizioni già espresse dal segretario: «Colloqui» con Arabia Saudita e Egitto «per una pace duratura e la sicurezza di Israele e della regione», la priorità di un cessate il fuoco e «la necessità di proteggere i civili a Gaza e aumentare l’assistenza umanitaria, sia via terra che via mare».