Tori e Lokita sono due ragazzini africani arrivati in Belgio coi trafficanti, si presentano come fratello e sorella, e di fatto lo sono perché il loro è un legame nato nel «viaggio» che li ha portati in Europa durante il quale si sono sempre aiutati e sostenuti per non essere sopraffatti. Ma le leggi e la burocrazia europee funzionano diversamente, a questa «fratellanza» – tutta laica, che riguarda la cura, la reciprocità e non qualche chiesa – oppone i cavilli, le evidenze, le prove che dimostrino la «verità» biologica del legame famigliare. Tori che ha dodici anni ha ottenuto i documenti in quanto perseguitato, era figlio di una «strega», destinato alla morte nel suo Paese, il Benin.Entrambi vivono in un centro d’accoglienza, vendono droga per il cuoco di un ristorante, Lokita ha sedici anni e viene dal Camerun dove ha lasciato la madre e i cinque fratelli I due ragazzini hanno preparato una versione condivisa per gli assistenti sociali, provando frasi e ricordi – «Quanti alberi c’erano in giardino?» chiede Tori a Lokita. Per dirle di fronte al suo «non ricordo» che infatti non ce ne era nessuno.
Entrambi vivono in un centro d’accoglienza, vendono droga per il cuoco di un ristorante, Lokita ha sedici anni e viene dal Camerun dove ha lasciato la madre e i cinque fratelli, è perseguitata dalla «chiesa» africana, vogliono i soldi per averli fatti arrivare lì, ma anche la famiglia le chiede i soldi e la ragazza non sa come fare. La sua unica gioia è il piccolo Tori, insieme cantano (il Branduardi di La fiera dell’est) e condividono un po’ di dolcezza. Quando le vengono negati i documenti Lokita finisce a coltivare le piante di marjuana per lo spacciatore, umiliata, picchiata e tradita dalla promessa che glieli faranno falsi.

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NON È LA PRIMA VOLTA che i fratelli Dardenne parlano dell’Europa e dei migranti, era il soggetto del molto bello Le silence de Lorna, una giovane albanese condannata alla follia dal sistema dell’occidente, quell’impossibilità di avere documenti che spinge i migranti nell’ombra e nell’illegalità. Cosa è infatti che permette schiavitù, abusi, che facilita il crimine a farne manodopera a buon mercato, che cancella i diritti se non l’impossibilità di essere tutelati, di avere un lavoro, di studiare, di esistere insomma, se non questa obbligata clandestinità? «Se Lokita avesse avuto i documenti poteva lavorare e noi saremmo rimasti insieme» dice nel finale il piccolo Tori. Il punto di partenza è dunque semplice quanto netto nella critica alle politiche dei nostri Paesi, e con questa stessa linearità i due registi belgi costruiscono la loro narrazione grazie a una scrittura cinematografica secca, asciutta, che poco lascia alle concessioni sentimentali e che ci porta, noi spettatori e cittadini di un occidente incapace a rispondere alle richieste e ai mutamenti del mondo, sempre più nella trappola che si chiude intorno ai due protagonisti.

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UNA TRAMA fatta di silenzi, sotterfugi, e soprattutto necessità di denaro per ripianare i debiti, aiutare le famiglie nelle quali loro sono i più esposti perché hanno necessità. Scandita da un ritmo incessante che è quello delle loro corse da una parte all’altra. Con i due protagonisti (sono Pablo Schils e Joely Mbundu) sempre in campo, la macchina da presa dei Dardenne ne segue il movimento in quel luogo senza orizzonte, un occidente colto per frammenti, chiuso, che nasconde agguati in ogni angolo, dove le loro traiettorie sembrano determinate solo da quest’ansia, da un’angoscia crescente, in cui risuonano indifferenza e distanza di chi li circonda. Un mondo privo di punti di fuga, in cui si coglie nel suo essere invisibile il nostro oggi.