Dopo le legislative, la Tunisia ha eletto il suo nuovo presidente della Repubblica: Kais Saied. Ne abbiamo parlato con Habib Kazdaghli, decano di Storia contemporanea dell’Università di Manouba e simbolo della laicità e della lotta all’islamismo politico anche nelle scuole tunisine.

 

Habib Kazdaghli

 

Un primo bilancio di queste tornate elettorali?

Siamo una giovane democrazia e possiamo dire che in confronto alla dittatura di Ben Ali, dopo le elezioni del 2014, i tunisini hanno avuto la possibilità di votare democraticamente, anche se hanno fatto scelte pericolose. Abbiamo 8 anni di vita e come per i bambini a questa età, c’è sempre il rischio di farsi male e di perdere tutte le libertà e i progressi ottenuti riguardo, soprattutto, ai diritti civili e alla parità di genere. Per riassumere, siamo divisi tra orgoglio e preoccupazione. Queste elezioni sono una conferma del clima di divisione e ingovernabilità. Ennahdha si conferma come primo partito con il 18%, questo dimostra, però, che l’islam politico non cresce ed è percepito da alcuni dei suoi ex elettori, soprattutto dai giovani che hanno preferito Saied, come parte del sistema. La crescita di Qalb Tounes al 15% non è uno sfondamento, come confermato dal secondo turno delle presidenziali. In qualsiasi caso nessuno dei primi due partiti potrà formare una maggioranza perché mancano oltre 70 seggi e sarà difficile anche la creazione di un governo di unità nazionale. Un’altra conferma è la disaffezione dei tunisini nei confronti dell’attuale classe politica e l’ascesa delle liste civiche e indipendenti. Sono state presentate 1507 liste nei 33 collegi elettorali con una media di 60 liste in ogni circoscrizione, un’enormità di candidati, circa 15mila, per i 217 seggi del parlamento.

Il ballottaggio alle presidenziali ha visto il confronto tra Nabil Karoui, un liberale e populista, e Kais Saied, islamista e conservatore…

La situazione purtroppo è difficile. Karoui è un personaggio corrotto e potrebbe realmente essere condannato per riciclaggio di denaro e corruzione. Già nel 2016 è stata presentata una denuncia dalla ong anticorruzione «I watch» nei suoi confronti e le incriminazioni di agosto sono legate, più che a una reale persecuzione politica, a ulteriori nuovi elementi comparsi nelle indagini. L’errore è stato quello di poter garantire la sua candidatura da parte dell’Isie (Alta Istanza per le Elezioni, ndr), una reazione opposta alle forti pressioni degli islamisti di Ennahdha di eliminare un avversario politico per favorire il loro candidato. Ci sono state anche sollecitazioni da parte dell’Ue per garantire un corretto voto – come la sua scarcerazione o la scelta di Saied di rinunciare alla campagna elettorale – tutto per evitare di invalidare il voto o di favorire un suo possibile ricorso, visto che ieri Karoui ha accettato la sconfitta. Viviamo anche un vuoto istituzionale a causa dell’assenza della Corte Costituzionale che avrebbe potuto garantire ed evitare questo tipo di situazione.

I due candidati rappresentavano il 34% degli elettori con un’elevata astensione, questo significa la fine della “rivoluzione del 2011”?

La rivoluzione dei Gelsomini non è finita anche se il voto rappresenta un messaggio chiaro alla classe politica attuale. Da una parte il voto delle presidenziali e quello delle legislative evidenziano soprattutto una frammentazione del campo laico e progressista che ha portato al ballottaggio due candidati anti-sistema. Si può affermare che le divisioni osservate durante le elezioni presidenziali, sono confermate dalle legislative con una situazione di ingovernabilità. Nelle presidenziali, ad esempio, tra i 26 candidati sette erano della famiglia laico-centrista una frammentazione che ha favorito sicuramente Saied. La sinistra radicale ha presentato tre candidati e ha raccolto l’1,8%. Anche gli islamisti sono attualmente divisi con l’ascesa dell’ultra-conservatore Seif Maklouf che ha ottenuto il 4,5% alle presidenziali e 21 deputati in parlamento nel raggruppamento al-Karama.

Entrambi i candidati simboleggiavano un voto contro il sistema politico attuale ed una deriva populista?

Tutti e due i candidati sono effettivamente la faccia della stessa medaglia. Karoui è un liberale che attraverso l’utilizzo dei media, come Berlusconi in Italia, è riuscito ad aumentare il proprio consenso elettorale. La sua sconfitta è legata al fatto che non aveva un preciso programma elettorale per affrontare la situazione economica e soprattutto per poter attuare politiche in grado di incidere sull’alto tasso di disoccupazione, vero problema del paese. Dall’altra ha vinto Kais Saied, un utopista, che ha una visione conservatrice della società e un programma incentrato sulla lotta alla corruzione, vera carta vincente in questa fase di crisi, sulla lotta alle caste e sulla volontà di rivalutare il ruolo sociale dello stato. Saied è diventato presidente come simbolo di discontinuità, anche se paradossalmente è stato sostenuto da Ennahdha che ha voluto dare un segnale di cambiamento e mostrarsi anti-sistema. Bisognerà vedere, come primo ostacolo, se riuscirà a trovare delle convergenze per la formazione di un governo di unità nazionale e poi se confermerà o stravolgerà la strada intrapresa riguardo ai progressi in materia di diritti civili e parità di genere.

Quale futuro per la sinistra tunisina dopo questa doppia sconfitta elettorale?

Il campo progressista della sinistra tunisina vive un periodo storico di crisi, come nel resto del mondo, in parte limitata dai fatti che portarono all’assassinio di matrice islamista, nel 2013, di due suoi celebri esponenti come Belaid e Brahimi. Una conferma è stata la divisione della sinistra che si è presentata alle legislative con numerose liste, le più importanti sono quelle del Fronte Popolare e dell’Unione Democratica e Sociale: hanno ottenuto in tutto 2 seggi visto che, purtroppo, non hanno più un reale consenso tra le classi popolari. La sinistra non è stata in grado in questi anni di presentare una concreta proposta politica alternativa e paradossalmente il suo essere «contro» qualsiasi iniziativa del blocco laico ha favorito l’ascesa dei partiti populisti e conservatori.