Bahey el-Din Hassan è una delle figure cardine del movimento per i diritti umani in Egitto e nella regione araba. La sua militanza comincia negli anni ’80, all’inizio dell’era Mubarak, nel sindacato dei giornalisti. Nonostante la sua ferma impronta laica è tra i primi ad affermare il principio che anche gli abusi subiti dagli islamisti vadano documentati e denunciati.

Nel 1993 fonda il Cihrs, il Cairo Institute for Human Rights Studies (che dirige ancora), un’organizzazione che ha segnato la storia recente dell’Egitto, divenuta punto di riferimento dell’attivismo civico nel paese. Dai suoi corsi di formazione rivolti a studenti e attivisti sono passati molti dei giovani protagonisti della rivolta del 2011.

Padre di Manal (moglie di Alaa Abdel Fattah, volto simbolo del movimento rivoluzionario), Bahey el-Din ha pagato in prima persona per il suo impegno instancabile. Minacciato di morte, poche settimane dopo l’elezione a presidente di Abdelfattah al-Sisi nel 2014 decide di trasferirsi in Europa. Il patrimonio della famiglia viene sequestrato e le minacce continuano a inseguirlo anche all’estero. Ma lui anche dall’esilio non smette di lottare e immaginare nuovi orizzonti possibili per il suo paese.

Prima di dover lasciare l’Egitto aveva mai pensato che anche a lei un giorno sarebbe toccato l’esilio?

Ho sempre saputo che qualcuno avrebbe potuto tentare di uccidermi, che fossero le forze di sicurezza o gli islamisti. Ma non mi sarei mai aspettato di ricevere una minaccia di morte pubblica, come invece mi è successo sotto al-Sisi. In realtà, ho preso in considerazione questa eventualità da quando i militari hanno attaccato le sedi di diverse organizzazioni per i diritti umani nel dicembre 2011. Era la prima volta che l’esercito interveniva direttamente in queste questioni, la prima volta che avveniva un assalto del genere. Questo fatto ha segnato l’inizio di una nuova stagione. Anche il nostro centro fu attaccato, ma ironia ha voluto che i militari andassero al nostro vecchio indirizzo. I miei timori poi si sono rinnovati durante l’anno di governo della Fratellanza musulmana.

Bahey el-Din Hassan

 

Come è cambiato il regime dalla rivoluzione di gennaio 2011 e dopo il colpo di stato militare del 2013? C’è stato un riassestamento negli equilibri di potere?

L’esito del luglio 2013 era l’obiettivo dell’esercito già prima della cacciata di Mubarak nel 2011. Dopo la sconfitta del 1967 (contro Israele, ndr) l’esercito è stato messo ai margini del potere in favore della polizia. Da allora lo scopo dei militari è diventato quello di rientrare nella politica egiziana e dominarla. Per loro il gennaio 2011 è stato il momento ideale per realizzare il proprio piano. Negli ultimi otto anni l’esercito si è destreggiato tra una forza islamista in ascesa e le rivolte popolari per ristrutturare lo spazio politico in maniera tale da poter controllare la vita politica. Questo sarebbe accaduto anche se la Fratellanza musulmana non avesse preso il potere nel 2012.

Che ripercussioni ha avuto la repressione del regime di al-Sisi sul movimento per i diritti umani in Egitto? Come ha reagito alle nuove sfide?

Il giro di vite ha costretto diverse ong a chiudere o a sospendere le proprie attività. Altre si sono trasferite all’estero o hanno continuato a operare in maniera semi-clandestina. Altre hanno deciso di scendere a compromessi con il regime, evitando di lavorare su questioni considerate troppo sensibili politicamente. Ma la maggior parte delle ong indipendenti in un modo o nell’altro ha portato avanti il proprio lavoro nonostante i rischi, tra cui il divieto di espatrio, il sequestro dei beni, la prigione e le minacce di morte. A causa di questa brutale repressione sempre più studiosi, artisti e difensori dei diritti umani hanno scelto l’esilio, formando una diaspora consistente in diversi paesi. Così si è sviluppata una comunità potenzialmente attiva di egiziani all’estero e si sono creati nuovi possibili percorsi per l’attivismo.

A marzo di quest’anno lei è stato tra i fondatori dell’Egyptian Human Rights Forum, di cui oggi è consulente. Cos’è e in cosa si differenzia rispetto alle organizzazioni già esistenti?

Il Forum è un’organizzazione costituita da individui appartenenti ad altre organizzazioni per i diritti umani e da altri non affiliati ad alcun gruppo. Ambisce innanzitutto a coordinare e mobilitare la diaspora, soprattutto considerato l’esodo massiccio di intellettuali, accademici, artisti e difensori dei diritti umani egiziani dopo l’ascesa di al-Sisi. Il secondo obiettivo è quello di fare in modo che i diritti umani universali diventino parte della visione di qualsiasi progetto politico alternativo al regime di al-Sisi.

Quest’anno, nel sesto anniversario del golpe, il Forum ha lanciato una proposta di riforma per l’Egitto a 360 gradi. Che significato ha il vostro appello in un momento come questo? È un salto in avanti rispetto al ruolo tradizionale dell’attivismo per i diritti umani?

Dalle elezioni presidenziali dell’anno scorso, ci sono stati vari appelli a formare coalizioni contro al-Sisi e diverse coalizioni si sono effettivamente costituite. In questi momenti è responsabilità dei gruppi per i diritti assicurarsi che qualunque accordo politico non si realizzi a spese dei diritti umani. L’appello consiste in una cornice fondata sui diritti, che speriamo possa essere presa in considerazione dalle coalizioni politiche, che siano liberali o di sinistra, laiche o islamiste, ma anche dall’opposizione e i riformisti interni al regime.

Alla vigilia del colpo di stato del luglio 2013, il vostro centro è stato tra le poche voci in Egitto a chiedere che i militari restassero al loro posto e non intervenissero in politica, mentre molte forze laiche si sono schierate a favore o sono rimaste in silenzio. È in corso un’autocritica sugli errori commessi dalle opposizioni?

Sono orgoglioso che il Cihrs all’epoca abbia preso l’iniziativa di guidare l’unico blocco laico che si è espresso contro il colpo di stato militare. Ritengo che ci siano state delle riflessioni negli ultimi due anni. Hazem Abdelazim, ex consulente di al-Sisi, ne è un buon esempio, anche se ora è in prigione per aver messo in discussione le sue posizioni ed essersi espresso pubblicamente contro il presidente. Non sono sicuro però se queste riflessioni abbiano riguardato anche le posizioni dei laici nei confronti degli islamisti, il che avrebbe un impatto diretto sulle loro visioni strategiche.

Poco tempo fa una ministra del governo egiziano ha velatamente minacciato di morte chi critica l’Egitto all’estero. Qual è l’atteggiamento del regime verso chi ha lasciato il paese? E qual è in questo momento il ruolo della diaspora?

La dichiarazione della ministra riflette quanto il regime sia infastidito dalle campagne internazionali, ma ne sono una dimostrazione anche le minacce di morte contro i difensori dei diritti umani all’estero e i divieti di espatrio contro quelli in Egitto, così come i recenti tentativi di indurre gli egiziani in esilio a tornare in Egitto promettendo in cambio sicurezza e risorse. Credo che la diaspora abbia la responsabilità di mobilitare l’opinione pubblica e i governi dei paesi ospitanti, di informare su quello che sta accadendo in Egitto e di sostenere le rivendicazioni del popolo egiziano.

Cosa le dà la forza di continuare a lavorare in questa situazione? Ha la speranza di poter vedere un cambiamento positivo in Egitto nel prossimo futuro?

Credo nei diritti e nella dignità umana e credo che questi trionferanno. Il quando sarà determinato da diversi fattori esterni e interni che non dipendono del tutto da noi. So che molti egiziani si sono sacrificati e sono ancora disposti a sacrificarsi, per mettere fine a questi crimini.