Il presidente Michel Temer fa marcia indietro. Revoca lo stato d’emergenza e ritira l’esercito dalle strade di Brasilia. Ma non rinuncia alla poltrona, conquistata con un golpe istituzionale contro Dilma Rousseff. E dunque non spegne l’incendio politico e sociale.

Che corre ora il rischio di estendersi a tutto il Brasile, dopo le battaglie di strada di Brasilia e Rio de Janeiro mercoledì. «Fora Temer» è lo slogan che risuona ormai praticamente in tutti gli stati del gigante sudamericano. Segno di un rifiuto popolare che non colpisce solo il presidente, ma in generale una classe politica vista come corrotta e inefficiente. E ricorda lo slogan «Se vayan todos» che rimbombava in Argentina nel dicembre del 2001, ridotta al lastrico da una classe politica corrotta, in quel momento rappresentata dal presidente justicialista De la Rúa. Anche nel caso brasiliano, non è più solo in questione la destituzione del presidente golpista, ma la fiducia in un intero sistema politico. Gran parte della popolazione richiede a gran voce l’elezione diretta del capo dello Stato. Dunque, una svolta istituzionale.

La sorte di Temer appare segnata. L’Ordine degli avvocati del Brasile ha aggiunto ieri la sua richiesta di impeachment alle 16 già presentate alla Camera dei deputati. Dalla divulgazione del polemico audio nel quale Temer dà il suo assenso a pagare un ex deputato arrestato affinché non lo coinvolga in operazioni milionarie di corruzione, lo stillicidio delle defezioni eccellenti dal suo staff si sta trasformando in un torrente.

Ma l’incendio suscitato prima dal golpe istituzionale, poi dalle leggi iperliberiste per «rivitalizzare l’ economia», infine dalla decisione di Temer di non farsi da parte nonostante le denunce è ben più vasto e pericoloso.

Per questa ragione si sono riuniti i tre presidenti, Lula da Silva (Partito dei lavoratori), Henrique Cardoso (Partito della socialdemocrazia brasiliana) e José Sarney (Partito del Movimento democratico brasiliano) per discutere e concordare le future azioni di fronte al nuovo scenario politico. Pur essendo i leaders dei maggiori partito del paese, i tre dirigenti tenteranno – queste le intenzioni espresse – di uscire dalla logica stretta del partitismo.

Se Temer rinuncia o viene destituito, la Costituzione prevede che il presidente della Camera dei deputati assuma la presidenza per 30 giorni in attesa che il Congresso elegga un presidente che rimarrà in carica fino alla fine del 2018. Ma vi è una complicazione che pesa come un macigno: l’incarico non può essere assunto da una persona inquisita. E sia il presidente della Camera bassa, Rodrigo Maia, sia il presidente del Senato – che gli succede nella lista – Eunicio Oliveira sono inquisiti per corruzione, nell’enorme scandalo del «lava jato» che investe la classe politica brasiliana. Se la Procura confermasse le denunce i due non potrebbero assumere il governo del Paese. In questo caso toccherebbe alla presidente della Corte suprema, Carmen Lucía, assumere la presidenza fino a quando il Congresso non riesca a trovare un candidato presentabile.

Si fanno i nomi di Henrique Meirelle, 71 anni, ministro delle Finanze, ex presidente della Banca centrale durante la presidenza di Lula e di Nelson Jobin, 71 anni, politico di lungo corso del Mdb, il partito di Temer.

La crisi in Brasile fa tremare l’Argentina. Non solo perché la sua economia è fortemente dipendente dal vicino, ma anche perché il governo del presidente Macri si trova ad affrontare una forte protesta sociale e uno scontro con i sindacati. Ma in generale è tutto il subcontinente, che attraversa una pericolosa fase di instabilità, a essere preoccupato per gli equilibri nel gigante sudamericano.

In Venezuela l’opposizione ha reiterato il rifiuto a partecipare alle elezioni dell’Assemblea costituente e ha messo in chiaro che la via scelta è quella di cercare di abbattere il governo eletto di Nicolás Maduro con la violenza. In Colombia, l’ex guerriglia delle Farc lancia un allarme sulla difficoltà di concretizzare gli accordi di pace e fa circolare la preoccupazione che il paese possa essere utilizzato dagli Stati Uniti come base per un’intervento armato in Venezuela.