Nel «grande gioco» niente si fa per gioco
Heartland È la più lunga partita a scacchi della storia. Iniziata nel 1830, non si è mai interrotta, sebbene siano cambiati i giocatori, le regole, gli equilibri in campo, i pezzi […]
Heartland È la più lunga partita a scacchi della storia. Iniziata nel 1830, non si è mai interrotta, sebbene siano cambiati i giocatori, le regole, gli equilibri in campo, i pezzi […]
È la più lunga partita a scacchi della storia. Iniziata nel 1830, non si è mai interrotta, sebbene siano cambiati i giocatori, le regole, gli equilibri in campo, i pezzi sulla scacchiera, le tattiche e gli interessi. Solo la posta è rimasta la stessa: il controllo dell’Heartland, quello che Halford John Mackinder, geografo, politico, esploratore inglese, tra i padri della moderna geopolitica, ha definito il «cuore del mondo», necessario al controllo strategico dell’intero globo e identificato dallo studioso con la regione dell’Asia Centrale. Un grande obiettivo per un «Grande Gioco», come lo ha chiamato per la prima volta uno dei suoi diretti partecipanti, il colonnello britannico Arthur Conolly, coniando un’espressione resa poi famosa da Rudyard Kipling con il picaresco romanzo Kim e ancora oggi utilizzata dagli storici e dagli analisti politici.
Ad avviare la ciclopica competizione fu la decisione di lord Edward Law Ellenbourg, presidente del Right honourable board of commissioners for the affairs of India di affidare al governatore generale del Gioiello della Corona, lord William Bentinck, il compito di aprire una nuova via commerciale per l’Emirato di Bukhara, che occupava una zona dell’Asia Centrale compresa tra le rive dei fiumi Amu Darya e del Syr Darya.
L’intento della Gran Bretagna era quello di arrivare a ottenere il controllo dell’Emirato dell’Afghanistan e di trasformarlo in un protettorato, utilizzandolo insieme alla Turchia, alla Persia, al Khanato di Khiva e all’Emirato di Bukhara come stato-cuscinetto per proteggere l’India e le principali rotte marittime sotto il controllo della talassocrazia britannica dalle mire dell’Impero Russo nei confronti del Golfo Persico e dell’Oceano Indiano. Il risultato fu l’avvio di una lotta senza tregua e senza quartiere tra Londra e Mosca, fino a poco prima alleate contro la minaccia di Napoleone Bonaparte, per il controllo, anche solo nominale, di tutta l’Asia Centrale.
Uno scontro mai divenuto aperto, combattuto a colpi di abili diplomatici, coraggiose spie, temerari esploratori, avventurieri esperti o improvvisati, audaci sicofanti e ingegnosi cialtroni in cerca di carriera, gloria o semplicemente fortuna. Tra pericoli mortali derivanti da luoghi impervi, climi insopportabili, feroci predoni e tribù ostili, decine di intrepidi agenti, più o meno ufficiali, al servizio di Gran Bretagna e Russia hanno rischiato e non di rado perso la vita per colmare la lacuna di una mappa, sorvegliare movimenti sospetti di truppe o stringere accordi con un lunatico khan locale pronto a farli torturare con uno spiedo rovente dietro consiglio di un indovino di corte dedito all’abuso di sostanze psicotrope.
Le conseguenze più dirette del Grande Gioco sono state la prima guerra anglo-afgana del 1839-42, la prima guerra anglo-sikh del 1845-46, la seconda guerra anglo-sikh del 1848-49, la seconda guerra anglo-afgana del 1878-80, e l’annessione di Khiva, Bukhara e Kokland da parte dello Zar Nicola. Poi il confronto si è spostato a Est, coinvolgendo Cina, Mongolia e Tibet, fino a quando, nel 1907, Londra e Mosca negoziarono un accordo, ponendo fine alla prima fase di quello che un ufficiale russo definì Turniry Teney, il Torneo delle Ombre.
Il gioco però può dare dipendenza, specie se basato sul più grande degli azzardi, il dominio globale. E per di più, come ha detto l’attore e comico John Belushi, quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare. Per questo a partire dalla seconda metà del Novecento, con il mutamento degli equilibri globali, il «Great Game» ha cominciato a riprendere vigore, con l’ingresso di un nuovo e accanito giocatore, gli Stati uniti, l’intervento russo in Afghanistan, il crollo dell’Unione sovietica e poi le guerre in Georgia, Nagorno Karabakh, Cecenia, Tagikistan e di nuovo in Afghanistan.
Oggi, all’indomani della sua elezione a presidente degli Stati uniti, è lecito chiedersi in che modo Trump si unirà alla partita. Considerati i reciproci apprezzamenti che il leader Usa e Putin si sono scambiati fino a questo momento, è probabile che si assisterà a una riduzione delle tensioni tra Washington e Mosca. Tale distensione potrebbe rafforzare l’influenza russa in Asia Centrale, favorita anche dalla morte del presidente dell’Uzbekistan Islam Karimov, che nel quarto di secolo in cui è stato al potere ha sempre fatto il possibile per tenere le distanze dall’ingombrante vicino.
Trump, però, potrebbe optare anche per un disimpegno più o meno marcato dall’Afghanistan, mossa che ridarebbe verosimilmente forza ai talebani, a discapito della sicurezza in alcuni paesi come il Turkmenistan, l’Uzbekistan, e il Tagikistan. In questo caso la Russia avrà bisogno di riempire il vuoto in modo da mettere in sicurezza la regione e dovrà farlo in tempi rapidi e con estremo vigore.
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