«E poi mi hanno picchiato per ore» è la frase più ricorrente pronunciata da Konstantin. Riguarda il periodo in cui è stato rinchiuso in un centro di detenzione di Kherson, in quella che prima della guerra era già una struttura detentiva ucraina. Da fuori si intuisce che c’è qualcosa di peculiare in quel luogo. Il filo spinato installato alla buona e a tratti cadente si interrompe solo sulle alte pareti di una pesante porta di ferro. Non è un luogo dove si sosta volentieri, trasmette l’aria negativa delle prigioni. Ora però, dopo aver richiesto i permessi si può visitare scortati dai poliziotti ucraini.

DALLA LIBERAZIONE della parte ovest di Kherson a oggi le autorità ucraine hanno pubblicato decine di informative sulle torture effettuate dai militari russi durante l’occupazione. Si parla di almeno 10 camere di tortura scoperte in città e molte altre fuori. Ma sono informazioni spesso difficilmente verificabili in quanto il tribunale internazionale che dovrebbe indagare sui crimini di guerra necessita di tempi molto lunghi ed è un lavoro che difficilmente si potrà svolgere con il conflitto ancora in corso. Intanto, il governo di Kiev ha istituito una sezione speciale di agenti e periti che vengono inviati nei territori liberati e raccolgono prove e testimonianze.

LE DICHIARAZIONI che seguono sono parte del racconto di un uomo di circa 40 anni che, in un centro di distribuzione di aiuti umanitari e quindi fuori dalla struttura detentiva e senza militari ucraini a controllare, ha raccontato la sua esperienza. Si tratta di una questione estremamente delicata, ma non è l’unica testimonianza che abbiamo raccolto in queste settimane a Kherson e ci è parso significativo riportarla.

«Il 9 luglio mi sono venuti a prendere a casa dei soldati russi, mi hanno incappucciato e legato le mani dietro la schiena. Erano più o meno le 2 del pomeriggio. Poi mi hanno portato a un posto di blocco vicino al ponte, dove mi hanno picchiato per ore, sono rimasto lì fino a notte inoltrata» racconta Konstantin. La stessa notte l’hanno trasferito al centro di detenzione in una cella con altre 5 persone. Perché? «Perché i russi avevano delle liste con i nomi di chi era stato militare in passato e credevano che io sapessi dove si nascondevano i partigiani ucraini o dove fossero i depositi segreti di armi della resistenza», dice mostrando una cicatrice sul polso e una alla testa, segni di quelle ore. Konstantin nel biennio 2017-18 ha prestato servizio in Donbass durante la guerra contro le truppe separatiste filo-russe.

DAL GIORNO seguente sono iniziati gli interrogatori. Oltre alle botte Konstantin racconta che in una stanza al piano terra, con le sedie inchiodate al pavimento, i detenuti venivano sottoposti a sedute di elettroshock. «Mi attaccavano gli elettrodi tra le dita o sui lobi delle orecchie e davano la scossa, volevano che parlassi ma io non sapevo nulla». Per i primi 3 giorni è andata avanti così, tra una seduta di elettroshock e una di botte, senza orari precisi. «A volte mi bagnavano anche perché la scossa facesse più effetto». Uno dei suoi compagni di cella è stato violentato e quando i militari sono tornati indietro gli hanno detto che se non avesse confessato avrebbero fatto la stessa cosa con lui. Il che non è avvenuto.
Lo stesso centro è stato gestito sia dai militari sia dalla polizia russa, «quando c’erano i militari era più dura, sembrava tutto improvvisato, ho l’impressione che spesso non sapessero neanche loro che cavolo stavano facendo».

COMUNQUE, i militari ripetevano «dicci dove sono le armi, vogliamo le armi» e Konstantin racconta di avergli risposto esausto «non lo so davvero, se vi dico un luogo a caso e voi non ci trovate nulla allora mi torturerete di nuovo, trovatene un altro che era nell’esercito in Donbass, io non lo so». E poi? L’hanno picchiato di nuovo.

«C’erano anche delle torture psicologiche, diciamo così: di notte quando non prendevano me potevo sentire le urla dalla stanza al piano terra e (ride) avevo anche iniziato a riconoscere quelli picchiati da quelli che subivano l’elettroshock. Non riuscivo mai a dormire di notte, ci provavo di giorno. A volte sentivo dei dialoghi urlati ‘cosa dobbiamo fare con questo corpo?’. Credo che alcuni li abbiano buttati direttamente nel Dnipro. A un altro prigioniero hanno sparato per 8 volte in punti non letali e mi hanno minacciato di farmi la stessa cosa. A volte organizzavano finte esecuzioni, anche a me è successo, mi hanno sparato una raffica davanti ai piedi».

HA MAI VISTO di persona un compagno venire ucciso? «Una volta ho visto sparare a uno della mia cella, ma non è morto, dopo averlo portato via i militari ci hanno ordinato di pulire il sangue».
«In quel momento non c’era un vero e proprio capo del centro, poi è arrivato un tizio dell’Fsb (i servizi segreti russi, ndr) e le cose sono cambiate, hanno iniziato a pianificare, ad analizzare i nostri casi. Si è trasformata in una cosa più sistematica, anche se capitava comunque che all’improvviso dei soldati ubriachi entrassero in cella e ci trascinassero fuori per picchiarci per 5-10 minuti. Ma 5 o 10 minuti sono sempre meglio di 3 ore di botte».

Quando «interrogavano» i militari indossavano tutti il passamontagna perciò Konstantin dichiara che non li ha mai visti in faccia se non fosse per alcuni istanti quando gli portava il tè, dato che a un certo punto l’avevano spostato a lavorare nelle cucine.

DOPO 37 GIORNI, il 18 agosto, l’hanno rilasciato, «ma me l’hanno detto per due giorni prima che fosse vero, temevo mi stessero solo prendendo in giro, poi mi hanno iniziato a dire che come ultima tortura mi avrebbero attaccato gli elettrodi al pene, li ho implorati di non farlo e per fortuna non l’hanno fatto». In seguito i militari sono tornati a casa sua 3 volte ma fino all’ingresso degli ucraini in città non l’hanno più arrestato nonostante abbiano minacciato più volte di riportarlo al centro.