«Quando credi che finirà la guerra?» chiedo a Tatiana in un bunker a Severodonetsk. Nel buio pesto di un sotterraneo senza elettricità illuminato solo dalla luce blu di una torcia da campeggio Tatiana mi guarda angosciata e un po’ stupita e risponde «non lo so, non so chi stia vincendo e non mi interessa neanche così tanto spero solo che finisca il prima possibile». Non si tratta di fatalismo ma di una reale condizione di inconsapevolezza che dura da giorni. L’interruzione delle linee elettriche qui nella regione di Lugansk ha determinato il fatto che i civili rimasti la maggior parte del tempo non hanno i mezzi per informarsi. «Ogni tanto accendiamo il generatore, ma lo usiamo soprattutto per scaldare l’acqua per i bambini piccoli e per ricaricare le torce» spiega l’anziana. Qualche volta si mettono in carica anche gli smartphone e allora qualcuno legge ad alta voce le notizie che si diffondono come un telefono senza fili nel rifugio. Ma anche i telefoni servono per illuminare e allora se ne fa un uso limitato.

Il buio è totale sottoterra, a ogni passo si rischia di incappare in un letto ricavato da qualche asse di legno o in una persona, ce n’è abbastanza per diventare pazzi. Con dei teli di plastica scuri si sono divisi gli ambienti, in modo da dare alle famiglie un minimo di privacy, per quanto il termine possa sembrare assurdo in questo contesto. All’interno di questi spazi ci sono dei letti a castello, due o tre, e pochissimi oggetti.

OLGA HA UN FIGLIO di nove mesi che da inizio aprile non vede la luce del sole. «Ho paura» spiega, «non esco mai fuori». Perché non se ne va? «Volevo andarmene» risponde Olga, «ma poi non hanno organizzato gli autobus di evacuazione e siamo rimasti a Severodonetsk, così con mio marito ci siamo trasferiti qui». E ora se ne andrebbe? «No, ora no, le persone qui sono buone e poi la strada è pericolosa». Mentre continuiamo in quel dedalo oscuro Tatiana sussurra «dice che non esce mai ma stamattina l’ho vista davanti all’entrata».

Soldati ucraini a Severodonetsk. Foto Ansa

VLADIMIR, un anziano di 75 anni si sveglia per le nostre chiacchiere e si mette a sedere sul letto. Ha uno sguardo duro, gli occhi attenti e i capelli a spazzola. Si trova qui da due mesi e la sua espressione tradisce l’orgoglio ferito di un uomo che si sente compatito. «Ho lavorato per una vita come soccorritore, sia in montagna sia in situazioni estreme come i terremoti o le alluvioni, ma non ho mai visto una cosa sporca come la guerra; è la cosa peggiore di tutte perché è fatta dagli uomini per uccidere i propri fratelli». Si aspettava che la Russia iniziasse una guerra contro l’Ucraina? «Nessuno se lo aspettava, ma ora vorrei solo che l’Occidente e, soprattutto, gli americani la smettessero di intromettersi in questa situazione e lasciassero i nostri Paesi a risolverla». Un braccio spunta dalle spalle di Vladimir, è la moglie che dormiva accanto a lui, nessuno se ne era accorto. La signora gli fa segno di calmarsi ma lui insiste: «Cosa credono che otterranno da noi più di questo?».

Insiste sull’ultima parola come se volesse proprio che guardassi intorno, ma non si vede nulla tranne il suo volto e qualche lineamento di quello della moglie. «Ma tu avevi un buon lavoro, ora con i soldi della pensione riesci a comprare il cibo e altre cose che ti servono?» gli chiedo. La signora si sporge e quasi lo sovrasta per dire che da due mesi le banche sono chiuse, i bancomat non funzionano e non si vede più una grivna. «A volte riusciamo a…» ma prima che possa continuare a parlare del figlio che ogni tanto riesce a portargli qualcosa, Tatiana lo interrompe dicendo «gli aiuti umanitari». Vladimir sospira vergognandosi, poi sembra arrabbiarsi ma subito decide che non ne vale la pena.

L’UMANITÀ MARTORIATA di Severodonetsk è il simbolo di questa fase del conflitto nel Donbass. Una città di frontiera senza acqua, luce, gas, telecomunicazioni e contatti con l’esterno in cui le culture si mescolano tra le generazioni e creano divisioni ideologiche incolmabili. L’esercito russo ha intensificato i bombardamenti e si parla di un attacco via terra imminente. In tal caso le forze ucraine potrebbero decidere di ripiegare verso Lysychansk per approfittare della migliore posizione strategica e continuare a rispondere al fuoco dalla distanza. Sembra difficile che lo stallo attuale si protragga ulteriormente ma, del resto, molti avvenimenti in questi ultimi tre mesi sembravano impossibili e poi si sono realizzati.

FUORI DA UN ALTRO bunker, una signora corpulenta di più di sessant’anni dice che non si può entrare perché sono in quarantena. Sembra assurdo ma in molti indossano la mascherina e sono seduti sulle scale tra il grande piazzale esterno e i sotterranei. La signora dice che non può parlare perché altrimenti l’arresterebbero. «Perché?». Perché a lei piace dire le cose come stanno e, infatti, poi parla. «I bombardamenti non sono solo russi, anche gli ucraini bombardano». Da dietro altre persone iniziano ad animarsi. «I russi non volevano la guerra a tutti i costi ma ci sono dei battaglioni ucraini che invece non vedevano l’ora». «Quindi lei sta dicendo che è colpa dell’esercito ucraino se la guerra è iniziata?». La signora ci pensa un istante e poi risponde «no no, non ce l’ho con l’esercito ucraino, solo con quei battaglioni come l’Azov, Aidar…».

Un anziano claudicante si avvicina e in perfetto inglese si presenta come insegnante in pensione. «Io non dico che i russi si stanno comportando bene, ma è evidente che il governo ucraino deve aver fatto qualcosa per provocarli». «Quindi voi siete rimasti qui perché aspettate che arrivino i russi?». La foga di poco prima si spegne e l’ex-insegnante si schiarisce la voce prima di rispondere «a me non interessa se a comandare sono i russi, gli ucraini o anche i pinguini dell’Antartide, io voglio solo vivere in pace qui, nella mia città, nel mio appartamento dove i militari ora non mi lasciano neanche andare». «Ma forse non la lasciano andare per evitare che le cada una bomba in testa» provo a controbattere. «Non ci lasciano andare perché a loro fa comodo che restiamo qui, a tutti fa comodo che restiamo qui senza sapere nulla, come topi in questo buco infernale. Ti sembra vita questa?».

Dopo poco si calma e racconta un po’ di sé, vive in costante apprensione per il nipotino a Dnipro che il figlio, «l’uomo che disprezza di più al mondo» ha abbandonato per scappare da disertore in Russia. Prima di salutare dice «non vorrei sembrare maleducato, ma lì sotto non si vede nulla e con il cellulare non riesco, non avresti una luce da darmi?». Gli regalo la mia torcia e quando l’accende per un istante si illuminano anche i suoi occhi. Ma è un istante solo, poi torna zoppicando dalla signora di prima e insieme si fermano sulla porta di ferro che sovrasta le scale.