Venerdì nel primo pomeriggio un giornalista della Bbc diffonde la notizia che tre missili balistici hanno colpito una caserma a nord di Mykolaiv. Si dice che al momento dell’attacco fossero presenti 200 soldati e che, stando alle prime notizie, ne siano morti 45. Qualche giornale lo riporta, la maggior parte delle agenzie no e non appare nei resoconti di giornata.

IERI MATTINA PRESTO siamo andati a verificare. Non eravamo sicuri di aver trovato il luogo giusto e dalla strada non si distingueva bene l’interno della grossa base militare. Poi, entrando nel vialetto che conduce alla porta carraia abbiamo notato i vetri delle finestre in frantumi su un edificio ma i muri tutti intatti.

«Non è stato così pesante», il primo pensiero. Però, appena scesi dall’auto, i militari ci sono venuti incontro e ci hanno bloccato dicendo che di là non si poteva passare senza autorizzazione del comandante. Ci siamo avvicinati al posto di guardia per velocizzare il processo e l’abbiamo visto.

Un cumulo di macerie che sporgeva dal grande cancello di ferro e che di sicuro si estendeva per molte decine di metri. Qualche pompiere e dei militari in movimento ma nulla di distinguibile a quella distanza. Dopo qualche minuto si è avvicinato un militare: il permesso è stato accordato.

Il primo impatto non è razionale, la mente corre alle immagini delle città devastate dopo i terremoti. Su una zona che occupava un’area uguale a quella dell’altra palazzina, ma che in altezza non arrivava alla metà, c’erano quintali di macerie, lamiere e resti di ogni sorta.

Tutto intorno decine di uomini intenti a rimuovere pezzi di cemento o altri ingombri e al centro di due crateri, che probabilmente stanno scavando da ieri, dei pompieri con la smerigliatrice e qualche militare con la pala. Da quel punto partiva una catena umana che si passava di mano in mano le macerie estratte.

L’immagine assomigliava molto a quella che abbiamo raccontato in questi giorni dei volontari sulla spiaggia di Odessa che trasportavano i sacchetti di sabbia per la difesa della città.

Ma qui lo sfondo marino era sostituito dalle travi di cemento grigie dalle quali spuntavano i tondini di ferro, i sorrisi dei volontari dalle facce impolverate e meste dei militari e, soprattutto, la generale atmosfera di «impegno per la causa» da un più tragico quadro di guerra.

A TERRA, FUORI DAI DETRITI, gli uomini hanno via via sistemato zaini, sacchi a pelo, elmetti e vestiti che venivano fuori dalle macerie mentre le operazioni continuavano. Poi un pompiere ha chiamato dal centro del cratere più piccolo e quattro soldati si sono affrettati a portare un grosso telo con dei manici.

Hanno estratto un corpo. Con estrema cura hanno adagiato un corpo di ragazza su quel telo e, facendo attenzione a non farlo sbattere troppo, si sono arrampicati di nuovo sulle macerie per riscendere verso un prato di fronte alla palazzina ancora integra.

FORSE L’ANDATURA LENTA e accorta adottata era solo una necessità per evitare di inciampare o ferirsi, ma tutta l’operazione ha assunto un’aria molto solenne. Per qualche minuto nessuno ha parlato. Poi il pompiere ha riacceso la smerigliatrice e ha chiamato un soldato per farsi aiutare con la pala. I soldati sono stati richiamati e un secondo corpo, stavolta maschile, è stato adagiato nello stesso punto.

La terza operazione è stata la più tremenda. Non so con quale stomaco i militari hanno sistemato su quel telo un mucchio di carni e ossa che muovendosi ondulava da parte a parte. Per sistemarlo sul prato hanno dovuto rovesciarlo. E il modo in cui quei resti sono caduti ha fatto pensare a qualcosa di molle, informe, non al corpo di essere umano.

Il soldato che presenziava all’operazione ci ha chiamato, voleva che vedessimo, ripeteva «you must see». O forse l’ha detto una sola volta, ma mentre lo diceva il volto della fotografa francese di fronte a noi è stato attraversato da un fremito di terrore che si è diffuso tutto intorno. Sembrava che stesse per svenire, era bianca ma, quel monito del soldato ci ha ricordato che «dovevamo» guardare e abbiamo guardato.

DOPO QUALCHE SECONDO ci siamo allontanati tutti, in silenzio. Abbiamo continuato a osservare le macerie e il lavoro dei pompieri, un fotografo per poco non si è fatto investire da un camion dei pompieri che faceva manovra per entrare e qualcuno ha urlato.

Sui siti delle agenzie ancora nulla, quanti di quei corpi avessero estratto e quanti ce ne fossero ancora non era chiaro e, comunque, chissà per quale motivo inconscio noi che eravamo lì cercavamo conferme da qualcun altro. Dopo esserci allontanati dal prato abbiamo notato oggetti ai quali prima non avevamo fatto caso.

Spazzolini da denti, un pettine, degli scarponi militari rimasti appesi a una lamiera, lembi di vestiti, asciugamani e materassi. Su un pezzo di cemento in piano stavano raccolti i documenti che man mano riemergevano dalle macerie e qualche altro pezzo di carta. Ce ne siamo andati senza salutare nessuno e ci siamo messi in viaggio per ritornare a Odessa, prima in silenzio, poi parlando d’altro.

VERSO LE DUE è arrivata la notizia, poi confermata dalle forze ucraine: quella caserma è la sede della 79° brigata aerea e ad oggi si contano più di 80 morti. Ciò vuol dire che le persone che abbiamo visto lavorare sulle macerie hanno ripetuto quelle operazioni strazianti per almeno ottanta volte. Mentre leggevamo, pensavamo a loro e non riuscivamo a immaginare lavoro peggiore.

Nel pomeriggio un collega giornalista da poco uscito da Kiev ci ha scritto per sapere se avevo novità del teatro di Mariupol. «Non ci si capisce nulla», ha detto ed, effettivamente, non è ancora chiaro perché non si dica se non c’è stata la strage che si paventava nelle prime ore. Forse non si potrebbe dare la colpa ai russi di un ennesimo massacro, ma almeno saremmo meno in apprensione.

Anche Zekensky è intervenuto sulla faccenda, ma il suo intervento ha ricalcato quello dei funzionari locali nei giorni scorsi. Forse ci sono centinaia di persone intrappolate nel rifugio del teatro. Forse queste persone sono tutte vive perché il rifugio era ben fatto.

Forse, aggiungiamo noi, non sono così tante ad essere lì o, sempre in via ipotetica, sono riuscite ad allontanarsi prima. Contemporaneamente le truppe russe che sono ormai entrate nel centro della città hanno proposto alle forze di difesa di arrendersi, promettendo in cambio di risparmiare ogni soldato ucraino che deporrà le armi.

La risposta ucraina è arrivata da un capitano del Battaglione Azov, Svyatoslav Palamar, che ha dichiarato: «Mariupol rimarrà una città ucraina».

A ODESSA INTANTO continuano gli allarmi e le raffiche d’artiglieria stavolta si sono sentite distintamente. Alle 20 locali ce n’è stata una durata più delle altre e, come spesso succede qui, le campane della cattedrale hanno accompagnato la sirena riecheggiando per diversi minuti in controtempo.

Mentre chiudiamo quest’articolo si sente il suono di una tromba provenire da qualche casa non lontana. Tutto intorno la notte tace e le note tristi e dolci per qualche motivo danno un po’ di sollievo.