Lo scorso anno una persona ogni 77 è fuggita dal proprio Paese: 100 milioni di sfollati in tutto secondo dati dell’Unhcr, una cifra che in dieci anni è più che raddoppiata. Di questi, però, solo 107.677 hanno attraversato il sistema di accoglienza nazionale italiano, in linea con la media degli ultimi anni. A tre giorni dalla dichiarazione dello stato di emergenza deliberato dal governo, i dati contenuti nel rapporto annuale 2023 del Centro Astalli per i Rifugiati mettono in evidenza come il persistere di una narrazione che tratti i flussi migratori come un fenomeno straordinario sia improprio oltre che controproducente. «Sono 40 anni che dobbiamo uscire dalla logica emergenziale – commenta il presidente della Cei Matteo Zuppi, intervenuto alla presentazione del rapporto a Roma -. Chiediamoci perché ci piace stare nell’emergenza».

I migranti arrivati via mare in Italia sono stati 105.129 in tutto, di cui 13.386 minori non accompagnati. Ma il 2022 è stato anche l’anno di 2.365 morti in mare e 1.568 dispersi nel Mediterraneo secondo l’Oim. Cifre che rischiano di aumentare per il «braccio di ferro del governo contro le Ong che si dedicano al salvataggio in mare» sottolinea il rapporto. «Oltre al fatto che quella che viene salvata dalle Ong è una percentuale minima di chi arriva – continua Zuppi -, credo che dopo Cutro dovremmo cercare di fare tutto il possibile per salvare vite. La preoccupazione del governo è che vi sia una connivenza con gli scafisti, ma sospettare dell’umanitario è inquinante e velenoso».

I respingimenti alle frontiere terrestri europee hanno interessato quasi seimila persone, il 12% delle quali sarebbero minori. «Non solo non abbiamo creato alternative, ma sempre di più ostacoliamo chi fugge – osserva padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli -. Molti migranti sono bloccati alle frontiere dell’Europa: in Libia, in Turchia, e ora ci prodighiamo perché questo avvenga anche in Tunisia. Siamo molto preoccupati per l’intenzione di restringere le maglie di alcuni permessi e di abrogarne altri».

Accanto alla privazione dei diritti e alla crisi climatica, i conflitti armati sono la causa principale delle migrazioni forzate: in cima alla classifica di chi scappa ci sono siriani, ucraini e afghani. «Non abbiamo di fronte persone irresponsabili, ma senza alternative» commenta padre Ripamonti. Nell’esperienza del Centro Astalli, però, «è come se ci fossero due percorsi paralleli: uno per gli ucraini e uno per tutti gli altri». I 170mila profughi ucraini arrivati in Italia hanno usufruito della protezione temporanea, di contributi economici e di un accesso facilitato al lavoro, nonostante equivalessero a quasi il doppio di tutti gli altri rifugiati messi assieme, a cui non sono state concesse le stesse possibilità. Misure che avrebbero potuto essere inserite in un percorso uniforme di accoglienza «sono state rese una tantum per rifugiati di serie A».

Gli altri si ritrovano inseriti in un sistema inadeguato che privilegia la permanenza nei Cas, strutture prive di servizi essenziali all’integrazione. In tanti poi rimangono intrappolati in un limbo giuridico: a Roma i tempi di attesa per il primo rilascio o il rinnovo dei permessi di soggiorno possono arrivare fino un anno, con pesanti ricadute sui percorsi di inclusione lavorativa e sociale. A ciò si aggiunge che per i rifugiati quello alla casa è un diritto ancora non esigibile.