Tutto si potrà dire del neo premier thai Srettha Thavisin ma non che non abbia saputo gestire la crisi degli ostaggi del suo paese che ne ha visti ieri liberati 12 su 23, un quinto del totale dei 50 consegnati per primi da Hamas alla Croce rossa per essere evacuati in Egitto. Con loro c’è anche un filippino.

La notizia è arrivata verso le tre del pomeriggio ora italiana quando le agenzie hanno iniziato a battere la notizia, resa subito pubblica dal premier su Facebook. Prima il silenzio.

SI POTREBBE dire che la consegna, quantomeno negli ultimi 15 giorni, sia stata in Thailandia quella del silenzio mentre, evidentemente, la strategia separata messa in campo da Bangkok, il primo paese a quanto sappiamo a trattare direttamente con Hamas, cominciava a germogliare.

Fino a ieri appunto, quando una delle comunità più grosse di stranieri tra gli ostaggi ha potuto mettere a segno la vittoria di vederne tornare a casa la metà. Tra i prigionieri asiatici ve ne sarebbero anche di nazionalità cinese, nepalese e srilankese. I numeri effettivi degli ostaggi e le nazionalità restano però ancora incerti.

Fino a ieri un greve silenzio ha circondato la vicenda degli ostaggi thailandesi e fino all’ultimo il portavoce del ministero degli esteri thai aveva detto di non poter confermare alcun rilascio anche se qualche segnale si poteva forse cogliere. Come la presenza a Bangkok del viceministro degli esteri iraniano Ali Bagheri Kani, in visita ufficiale nella capitale thailandese.

La diplomazia di Bangkok si era mossa proprio da Teheran con la visita a fine ottobre di una delegazione che includeva, non a caso, anche un capo spirituale sciita del sud della Thailandia (dove ci sono tre province a maggioranza musulmana sunnita). Proprio a Teheran la missione aveva incontrato i responsabili di Hamas per negoziare il rilascio.

DA QUEL MOMENTO non si è più saputo nulla ma quella trattativa bilaterale stava dando i suoi frutti. Accompagnata dai ripetuti accenni della diplomazia thai al fatto che Bangkok ha riconosciuto lo Stato palestinese nel 2012 e respinto la decisione di sostenere Gerusalemme capitale nel 2017.

Tra quelli ancora in ostaggio, i thailandesi sarebbero almeno undici mentre sarebbero 39 i lavoratori thai morti nell’incursione di Hamas del 7 ottobre. Facevano parte di una delle maggiori comunità straniere in Israele, poco meno di 30mila persone, il 90% della forza lavoro straniera nel settore agricolo israeliano, come ha ricordato Kavi Chongkittavorn, un giornalista e opinionista del Bangkok Post, secondo cui il governo dovrebbe rivedere quote e modalità dell’immigrazione thai.

Kavi, che ha smentito come «fake» la presenza di un mercenario thailandese nelle forze armate israeliane, ritiene che serva un nuovo impegno di tutela visto che i lavoratori siamesi rischiano di essere visti come «complici di Israele», senza contare la storica vicinanza tra Bangkok e Washington, padrino numero uno di Tel Aviv.

Molti thai hanno già fatto ritorno in patria e con una discreta velocità, ma 18mila fra loro hanno detto di voler restare: guadagnano infatti una media di oltre 2mila euro al mese, sei o sette volte di più di quanto realizzano a casa: una bella cifra, una volta ripagati agenti e intermediari.

IL GOVERNO thailandese ha evacuato in un mese più di 8mila lavoratori che volevano lasciare il paese, mentre Israele ha fatto sapere che altri 5mila sono stati riportati in zone più sicure dalle aree vicine al confine di Gaza. Circa il 75% delle verdure israeliane vengono infatti coltivate nel sud, vicino alla Striscia dove infuria la guerra, e diverse centinaia di thai si troverebbero ancora in «zona rossa».

Quanto agli israeliani, la Thailandia piace. Prima della pandemia, una media di 160mila israeliani visitavano ogni anno il Paese delle Orchidee. Quest’anno sono già stati più di 35mila.