Sui gradini del tribunale della Georgia dove sono stati condannati i suoi assassini, la madre di Ahmaud Arbery ha ringraziato Dio per il verdetto che non avrebbe mai immaginato di vedere emesso.

È un affermazione  che può sembrare singolare per chi abbia visto il video, girato dagli stessi carnefici, che documenta come il giovane jogger Afroamericano sia stato braccato in pickup da tre uomini bianchi che gli hanno poi sparato a bruciapelo perché ritenevano sospetto il suo fare.

Ma il sollievo con cui è il verdetto è stato accolto non solo dai famigliari, ma dall’America civile e dagli Afroamericani che hanno seguito il processo col fiato sospeso, dà la misura della trepidazione con cui il paese affronta ancora fantasmi profondamente radicati ed agitati negli ultimi anni dalla recrudescenza razzista.

Il verdetto Arbery è giunto infatti un paio di giorni appena dopo quello che ha assolto Kyle Rittenhouse, il vigilante adolescente che ha ammazzato due manifestanti anti razzisti in Wisconsin dopo essersi autonominato difensore di Kenosha e recatosi a “pattugliare”  quella città del Wisconsin imbracciando un AR 15.

Quella sentenza è stata osannata dalla destra suprematista che ha fatto del ragazzo un simulacro di una “autodifesa armata” che oggi viene apparentemente sancita dai tribunali (come lo sarebbe in tutta probabilità dalla Corte Suprema blindata dai togati a vita istallati da Trump).

È un filone che anche senza voler ricorrere a stereotipi rimanda inevitabilmente al retaggio di violenza sommaria del paese fondato su individualismo, schiavismo e pulizia etnica.

Il verdetto Arbery – come aveva fatto qualche mese fa la condanna del poliziotto assassino di George Floyd – costituisce una rara incrinatura della pretesa di impunità bianca che fino ad oggi è stata la norma.

Senza scomodare complessi di superiorità che i sovranismi sdoganati nella fortezza Europa rendono a oggi vieppiù ingiustificati, sono avvenimenti che in America hanno un’immediatezza che rimanda ad una storia razziale antica e recente che il nazional populismo ha pericolosamente rimestato.

Parallelamente ai verdetti a sfondo politico-razziale (fra cui bisogna annoverare anche quello civile contro i neo nazisti organizzatori della mortifera manifestazione di Charlottesville, condannati martedì a risarcirne le vittime), la scorsa settimana ha registrato anche casi clamorosi di “errori” giudiziari.

Prima lo scagionamento dei due uomini falsamente accusati dell’assassinio di Malcolm X, Muhammad Aziz e Khalil Islam che hanno entrambi scontato pene di decenni in prigione.

Pochi giorni dopo è stato rimesso in libertà Kevin Strickland, scagionato 43 anni dopo la falsa condanna per omicidio che la polizia di St Louis gli aveva cucito addosso quando era 22enne.

In questi casi si ravvisa la trama un vecchio film, la replica permanente in cui le vittime che di rado vengono liberate dopo decenni trascorsi ingiustamente in galera, o più spesso continuano a marcirvi, hanno sempre lo stesso colore di pelle.

Frequentemente, come per Khalil Islam nel caso Malcolm X, la sentenza che lo scagiona arriva solo postuma.

Dal 1989 l’Innocence Project, un consorzio di avvocati volontari e studenti di legge, lavora per il riesame dei casi mediante analisi sul Dna dei condannati, molti dei quali, spesso a meno di 21 anni di età, erano stati indotti a firmare confessioni imposte dalla polizia.

Ad oggi in 37 stati americani 375 detenuti sono stati scagionati – in media avevano trascorso in prigione 14 anni, e 21di questi si trovavano nel braccio della morte.

L’ultimo e più inquietante dato conferma una tragica e accettata verità: negli Stati uniti un numero imprecisato ma sicuramente consistente di innocenti sono stati, e vengono tuttora, messi a morte.

Non si tratta quindi di occasionali “errori” ma di un problema sistemico dall’innegabile sfondo razziale: il 60% dei casi riesaminati ha riguardato afroamericani (mentre nella popolazione generale i neri costituiscono poco più del 10%).

Protagonisti e martiri di una storia al contempo secolare e sempre attuale dai linciati del “Jim Crow” ad  Emmett Till alle Pantere Nere uccise o rinchiuse dal programma Cointepro del FBI (ricordo l’uscita di prigione dopo 27 anni di Geronimo Pratt giovane dirigente delle Pantere di Los Angeles quando venne incastrato da una testimonianza procurata dalla polizia nel 1972).

E poi di volta in volta i Groveland four, i Central Park five…le storie che scandiscono l’ingiustizia sedimentata come sistema.

Questa è la storia che oggi non solo la destra ma anche molti “moderati” chiedono di non riesumare o magari insegnare per non turbare la pace (e gli fanno eco le controparti che in Europa si ergono a paladini della cultura occidentale contro la correttezza politica multiculturale).

La storia invece è ineludibile – ma non irripetibile, come conferma in qualche modo il “rapporto sullo stato globale della democrazia” pubblicato sempre questa settimana da International Institute for Democracy and Electoral assistance di Stoccolma che ha per la prima volta inserito gli Stati uniti fra i paesi caratterizzati da una “regressione democratica,” specificamente  in virtù delle manovre repubblicane volte a consolidare il potere di minoranza mediante la soppressione e l’inibizione del voto di Neri e minoranze – adattamento odierno delle operazioni messe in campo dal Sud segregazionismo per mantenere l’apartheid per un secolo dopo la fine della guerra civile.