“Com’era prevedibile”. Da qualche tempo queste tre parole sono pericolosamente in grado di spiegare tutto quel che avviene in Russia. “Com’era prevedibile” a febbraio di due anni fa Vladimir Putin ha ordinato l’invasione in Ucraina dopo avere assistito al fallimento della spericolata strategia che aveva scelto per ottenere nuovi accordi nel campo della sicurezza con l’amministrazione americana e con i governi europei. “Com’era prevedibile” ieri nella colonia penale di Kharp, nell’estremo nord del paese, è morto Alexeij Navalny, l’ultimo oppositore politico di Putin, l’unico, sostengono molti, davvero temuto al Cremlino. Un evento, viene da pensare, che tutti avevano messo in conto e che nessuno è mai stato in grado di impedire. Perché tutto il potere è finito a una sola persona, o quantomeno a una ristretta cerchia di persone.

Navalny aveva quarantasette anni. Quasi la metà li aveva consacrati alla lotta contro il potere assoluto di Putin e dei suoi uomini più stretti. Prima con partiti liberali e nazionalisti, due mondi che in questa Russia si sono spesso saldati, a volte per ragioni ideologiche, a volte soltanto per opportunità, poi nell’organizzazione che lui stesso aveva fondato e che aveva ottenuto visibilità e sostegno in Europa e negli Stati Uniti.

Proprio questo elemento è all’origine della principale critica che gli rivolgevano in patria e all’estero: come puoi pensare al bene della Russia, se tieni un orecchio rivolto all’occidente? Eppure Navalnij era un vero russo. La sfida a Putin l’aveva lanciata partendo da quel terreno, da posizioni spesso estreme non solo sul tema sensibile dell’immigrazione, ma sulla stessa convivenza fra le nazioni che compongono il paese. Nel 2008 aveva sostenuto la guerra lampo alla Georgia, con i carri armati russi a trenta chilometri da Tbilisi. Più tardi, in una intervista alla Radio Eco di Mosca, aveva usato un paragone poco pulito per spiegare che la Crimea sarebbe rimasta dov’è adesso: «Non credo che possa passare da una mano all’altra come un panino alla salsiccia». A questa figura politica per molti versi eccentrica per anni hanno contrapposto la serietà istituzionale di Putin. A ben vedere, però, l’uomo di stato non ha risolto il conflitto con l’Europa. Anzi, ha riportato la guerra.

Per descrivere Navalny lo storico russo Alexander Etkind, che ha accompagnato il suo percorso nell’ultimo decennio, cita spesso il titolo di un famoso romanzo: Un eroe del nostro tempo di Mikhail Lermontov. Navalny apparteneva certamente al nostro tempo. Era l’uomo politico più moderno che la Russia potesse vedere all’opera, aveva intuito per primo la svolta populista in corso in Europa, l’aveva anticipata e cavalcata attraverso i social network, con inchieste sulla corruzione costruite come show televisivi, con una rete di collaboratori che stava costruendo lentamente e che le autorità hanno smontato pezzo per pezzo con retate, sequestri e denunce. La sua morte per un malore nel carcere a regime speciale del Territorio autonomo Yamalo-Nenets segna con ogni probabilità l’ultimo capitolo di una esperienza politica che aveva coinvolto decine di migliaia di giovani in decine e decine di città.

Non è errato sostenere che Navalny sia anche un eroe. Un tipo di eroe che la Russia ha avuto in ogni epoca, e che in ogni epoca ha affrontato persecuzioni. Nel 2020, dopo la lunga degenza in Germania che gli aveva permesso di sopravvivere a un avvelenamento, Navalny avrebbe potuto continuare una tranquilla esistenza da emigré, da leader dell’opposizione all’estero. Conferenze, riconoscimenti, un libro tradotto in molte lingue, l’universale comprensione che spetta agli esiliati. Il coraggio che ha mostrato con la scelta di tornare in patria, di scontare una pena sicuramente ingiusta e di sacrificare il suo corpo in nome di una lotta politica non possono non suscitare ammirazione.

Ai suoi sostenitori Navalny diceva: «Non dovete avere paura, questo è il nostro paese e non ne abbiamo un altro». Molti ieri sera hanno rischiato il carcere per ricordarlo con un fiore nelle piazze della Russia. Manca solamente un mese alle presidenziali. Gli organismi della burocrazia sovrana hanno già tolto di mezzo tutti i candidati sgraditi. Il carcere ha cancellato ieri il solo rivale che Putin ha temuto davvero. La sua vittoria è scontata. Sarà complesso, però, cancellare dalle strade della Russia il messaggio di questo eroe dei nostri tempi.