«I populisti affermano di essere i protettori dell’interesse del cittadino medio contro le élite: assecondano le paure e gli entusiasmi del popolo e si fanno promotori di politiche senza considerarne le conseguenze per il Paese». Partendo dalla definizione di populismo dell’enciclopedia Britannica già riportata, e smontata, da Marco Bascetta sulle colonne di questo giornale, chi osserva lo snodarsi delle traiettorie politiche indiane degli ultimi tempi non può che riappacificarsi con un dato difficilmente opinabile: in un paese che vanta estensione, demografia e diseguaglianze tanto straordinarie quanto quelle indiane, il populismo non rappresenta un attributo della politica, ma ne è l’unica manifestazione possibile.

Lo è non da ieri, a causa dell’aritmetica elettorale applicata all’alternanza democratica indiana, che ne ha determinato le sorti fin dalla nascita: le elezioni si vincono col voto dell’aam aadmi, «l’uomo comune» in cui oggi si riconosce tutto quel 70 per cento della popolazione indiana che vive nelle campagne, più le decine di milioni che si ammassano nei quartieri popolari delle metropoli. E l’aam aadmi, per definizione, vive in contrapposizione perenne con le diverse forme che le élite assumono nei vari strati della società indiana: i babu, funzionari della burocrazia locale; i neta, leader della politica; i crorepati di India Inc., appartenenti alle dinastie industriali multimilionarie simbolo della crescita indiana; i giornalisti – specie progressisti, ma il risentimento si è presto allargato all’intera categoria, scimmiottata dall’upper middle class conservatrice col nomignolo «presstitute» («press»+«prostitute»). Categorie che in Italia riassumeremmo col terribile termine «casta» (quella di Stella e Rizzo) e che qui in India, dalle parti della «gente», godono della medesima infamia.

Il gioco, in India come nel resto delle democrazie, sta nello schierarsi dalla parte dell’aam admi senza intralciare la «casta» e Narendra Modi, primo ministro in carica da oltre tre anni, si è dimostrato un giocatore formidabile, adottando strategie inedite nel populismo tradizionale indiano.

Prendiamo come esempio la demonetizzazione del novembre 2016, quando NaMo annunciò a sorpresa la messa fuori corso di tutte le banconote da 500 e 1000 rupie in circolazione: un colpo fatale nella «lotta del popolo contro i ricchi», che nel sentimento comune indiano fa rima con corrotti. Una guerra che il primo ministro «del popolo» combatteva al fianco dell’uomo comune, costringendo «i ricchi» a svelare le montagne di denaro falso o non dichiarato ammassato alle spalle dell’aam admi, livellando i divari sociali nell’obbligo di sottoporsi a estenuanti file agli sportelli bancari. Sette mesi dopo, nonostante gli effetti della demonetizzazione siano stati devastanti per contadini e lavoratori giornalieri, lasciando intonsi i ricchi evasori fiscali del subcontinente e rallentando la crescita indiana di almeno un punto e mezzo percentuale, basta parlare con qualsiasi fruttivendolo, autista di riksha o piccolo negoziante per riscontrare un fortissimo consenso popolare per Modi. Alla prova dei fatti, assolutamente ingiustificato, ma dei fatti ormai non importa più nulla a nessuno e Modi, che in India lo ha capito prima di altri, sta costruendo giorno dopo giorno un impianto populista a prova di bomba, tutto giocato sul controllo totale che il governo esercita nella narrazione di sé. Da tre anni a questa parte il primo ministro indiano non ha mai indetto né partecipato a una conferenza stampa, né in India né all’estero. A parte alcune interviste concordate rilasciate a giornalisti indiani – siparietti che definire apologetici sarebbe estremamente riduttivo – Modi ha sempre evitato le domande della stampa, preferendo alimentare due filoni narrativi unilaterali: uno, in hindi, destinato all’uso interno; e uno, in inglese – spesso in traduzione, ma non sempre – per l’esterno.

È già passato alla storia, ad esempio, l’intervento che Narendra Modi fece al Global Citizen Festival di New York nel 2014. In un inglese zoppicante, a conclusione di sei minuti di melassa retorica sulle speranze riposte nelle nuove generazioni, Modi salutò la folla di giovani newyorkesi con «God bless you and may the force be with you»; citazione pop del Maestro Yoda di Star Wars, folla in visibilio.
Un’immagine bonaria che fa il paio con la favola del primo ministro indiano «figlio di un venditore di té» alla stazione ferroviaria di Vadodara, in Gujarat, sempre propinata fuori dai confini nazionali omettendo una militanza pluricinquantennale nell’organizzazione paramilitare ultrahindu di ispirazione fascista Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss). Nell’India degli indiani, dove la lingua della politica è l’hindi, le doti oratorie eccezionali di Modi irrobustiscono la fama di uomo forte della politica nazionale in comizi, dichiarazioni o uscite pubbliche quasi all’ordine del giorno, seguendo i ritmi frenetici di un paese che tra elezioni amministrative, statali, suppletive e federali non esce mai dalla modalità di campagna elettorale continua.
I discorsi di Modi sono infarciti di giochi di parole, acronimi, calembour e divertissement di varia natura, perfetti per dettare l’agenda dell’informazione e per imprimersi indelebilmente nella testa del pubblico.

Motti come achhe din aane waale hain, «i giorni felici stanno arrivando», coniato durante la campagna elettorale del 2014 e immediatamente diventato luogo comune per i fan di Modi e, con sarcasmo, per i suoi detrattori. Ma il vocabolario modiano, in costante aggiornamento, obbedendo al lessico del marketing a stelle e strisce si arricchisce di voci che se all’orecchio italiano risultano un po’ stantìe – tra il pennello Cinghiale e le «tre I» di Letizia Moratti – a quello indiano sanno di novità bizzarra, e per questo efficace.

Tra i cavalli di battaglia segnaliamo: meno «red tape» (impedimenti burocratici) e più «red carpet» (tappeti rossi) per le aziende che vogliono investire in India; sostituire la «VIP culture», l’insieme dei privilegi accordati alla classe dirigente indiana, con la «EPI culture», dove EPI, in una summa del populismo modiano, sta per Every Person is Important; la promessa elettorale di portare in tutto il paese il vikas, in hindi «progresso» ma a sua volta acronimo di VIdyut (elettricità), KAnoon (legge, inteso come «law and order») e Sadak» (strade); le 3S di cui l’India ha bisogno per competere con la Cina (Skills, Scale, Speed); il gioco di parole che Modi ha utilizzato congratulandosi con gli scienziati dell’agenzia spaziale indiana dopo il successo della Mars Orbiter Mission (abbreviato MOM), dicendosi certo del buon esito dell’operazione a partire dal nome, perché la «MOM (mamma) non delude mai». Oltre alla versione del fine umorista, la comunicazione monodirezionale di Modi trova la propria massima rappresentazione sulle onde di All India Radio (AIR), la radio pubblica indiana, in grado di raggiungere oltre il 99 per cento della popolazione locale.

Nella trasmissione a scadenza mensile intitolata «Mann Ki Baat» (La Voce del Cuore), della durata variabile dai 20 ai 30 minuti, il primo ministro – «brahmachari», osservante del celibato hindu – veste i panni dell’anziano e saggio capofamiglia, alternando con voce calda e misurata aneddoti circa le ricorrenze del mese a incoraggiamenti per gli studenti sotto esame, fornendo spiegazioni «a braccio» delle politiche varate dal governo per «i poveri, i contadini, i lavoratori e gli afflitti» – letterale, dalla puntata dedicata alla demonetizzazione – fino agli ammonimenti alla popolazione sui malanni di stagione, dando anche spazio a lettere e telefonate «selezionate» dall’emittente. Secondo un sondaggio della stessa AIR nel 2016, un indiano su due si è sintonizzato almeno una volta sulle frequenze della radio pubblica per ascoltare Mann Ki Batt, senza contare le ritrasmissioni in tv, sul satellite, online, sull’app MyGov.in e sulle radio private.