Da almeno quattro millenni la canapa viene coltivata, in Asia orientale, per ottenere olio di semi e fibre tessili. Le piante sfruttate dai primi agricoltori, come la maggior parte di quelle selvatiche, erano inequivocabilmente light. Eppure già Erodoto, riferendosi alle sconfinate steppe degli Sciti, alimentava sospetti nel descrivere nomadi che, serrati nelle proprie tende, gettano semi di canapa su pietre roventi per procurarsi bagni di vapore eccezionali.

Testimonianza, questa, ascrivibile alla letteratura, forse alla storia, sicuramente non ancora alla scienza fino allo scorso 12 giugno, quando uno studio pubblicato sulla rivista Science Advances ha finalmente identificato prove dell’utilizzo consapevole di composti psicoattivi antiche di 2500 anni e contemporanee così alla citazione dello storico greco.

Residui organici di combustioni con tracce di tetraidrocannabinolo – THC, il noto principio attivo della cannabis – sono stati infatti isolati in bracieri funerari lignei rinvenuti dagli archeologi nel cimitero di Jirzankal, in Cina occidentale.

Ricercatori del Max Planck Institute, dell’Accademia Cinese delle Scienze e dell’Accademia Cinese delle Scienze Sociali hanno quindi dimostrato, attraverso la gascromatografia e la spettrometria di massa, che i frequentatori di Jirzankal, sulle montagne del Pamir, scientemente selezionavano piante con una maggiore concentrazione di THC per servirsene durante i rituali mortuari: mentre i defunti erano seppelliti in tombe sulle quali venivano innalzati tumuli circolari decorati con pietre bianche e nere, i sacerdoti bruciavano al chiuso semi di canapa per inebriare i partecipanti e metterli in comunicazione con l’aldilà.

La ricerca, confermata da evidenze analoghe provenienti dalle regioni dello Xinjiang e dai monti russi dell’Altai, documenta il più antico uso della cannabis dovuto esclusivamente alle sue proprietà psicoattive.

Alcuni degli scheletri recuperati a Jirzankal denotano caratteristiche simili a quelle di popoli stanziati di gran lunga più a ovest e le analisi sulle ossa degli isotopi stabili mostrano che non tutti gli ospiti del cimitero erano cresciuti sul posto. Ne deduciamo che i monti del Pamir, tanto remoti nel nostro immaginario, si trovavano allora nel bel mezzo di un’imponente rotta commerciale.
«Lo studio implica che tramandare la conoscenza di specifiche varietà di canapa con alto contenuto psicotropo rientrasse tra le tradizioni culturali diffuse lungo questa primigenia Via della Seta», ha dichiarato Robert Spengler, archeobotanico del Max Planck Institute.

Sappiamo che le piante di cannabis producono maggiori quantità di tetraidrocannabinolo in risposta all’aumento dei raggi ultravioletti e di altri fattori di stress legati alla crescita a quote più elevate, per cui è ipotizzabile che, vagando per alte valli, i nomadi del Pamir si siano imbattuti in esemplari selvatici dotati di poteri che devono esser loro sembrati magici, tanto da indurli a un nuovo tipo di coltura.

«Considerando il clima politico che circonda l’uso della cannabis, l’archeologia può aiutarci a comprendere le origini delle pratiche contemporanee per informare a sua volta la politica», sottolinea Nicole Boivin, il direttore del Max Planck Institute.

«Anche se il punto di vista sulla canapa varia enormemente per ragioni culturali», osserva Spengler, «è tuttavia chiaro come essa conti su una storia millenaria sia nell’uso medico e rituale che in quello ricreativo».