I responsabili della morte di Wai Yan Tun, 16 anni, e di Thet Naing Win, 36, due delle 4 vittime registrate fino in Myanmar, potrebbero essere i membri di una famigerata divisione di fanteria leggera, la 33esima.

La più attiva, insieme alla 99esima, nel pogrom che nell’estate del 2017 ha costretto alla fuga dallo Stato del Rakhine più di 700.000 Rohingya, oltre che, più in generale, nelle campagne di contro-insurrezione contro le minoranze etniche del Paese.

Per ora non è certo che ad aver aperto il fuoco siano stati proprio i membri della 33esima, ma è sicuro che siano intervenuti nel cantiere navale di Yadanarbon, sulla Strand road di Mandalay, secondo quanto dichiarato da Tom Andrews, lo Special Rapporteur dell’Onu sui diritti umani nel Myanmar.

I Rohingya sanno bene, dunque, con chi hanno a che fare oggi i civili birmani che contestano il colpo di Stato militare. Al potere c’è infatti quel generale Min Aung Hlaing che nell’estate del 2017 non si faceva scrupolo di dire apertamente – ha ricordato nei giorni scorsi Ro Nay San Lwin, cofondatore della Free Rohingya Coalition – che occorresse ripulire i villaggi birmani dai Rohingya, «un lavoro lasciato incompiuto» da troppi decenni e che andava finito.

Grazie proprio alla 33esima e alla 99esima divisione: il loro arrivo, nell’agosto del 2017, all’aeroporto di Sittwe e sulla costa, su barche stracolme di soldati d’elite, avrebbe segnato una svolta nel tentato genocidio, secondo una ricostruzione della Reuters di 2 anni fa. Tre le cittadine birmane in cui le operazioni della 33esia divisione sono state particolarmente cruente: Gu Dar Pyin, Tula Toli e Inn Din. Omicidi sommari, stupri, villaggi alle fiamme. Tanto da portare gli Stati Uniti, nell’agosto successivo, a prevedere sanzioni non solo per i comandanti, ma per l’intera divisione. In quel periodo, i Rohingya superstiti vivevano già da un anno oltreconfine, dopo aver attraversato il fiume Naf ed essere entrati in Bangladesh.

Per loro, il colpo di Stato in Myanmar e la repressione che ne è seguita svelano una brutalità subita a lungo, lontano dai riflettori. E rende più lontano quel «rimpatrio sicuro, volontario, sostenibile e dignitoso» che l’Onu continua a invocare.

Il governo di Dacca, alle prese con la difficile gestione di più di 1 milione di profughi Rohingya, spera che le autorità militari birmane approfittino della situazione per agevolare il rimpatrio, «come già fatto nel 1978 e 1992», ha sostenuto il ministro degli Esteri, Abdul Momen.

Ma né ora né nei prossimi mesi ci saranno le condizioni per il rimpatrio. Il rischio, per Dacca, semmai è il contrario: nuovi arrivi dal Myanmar. Per questo ha intensificato i controlli sul confine e accelerato anche i trasferimenti dei Rohingya dai campi profughi del distretto di Cox Bazar a Bashan char. Un isolotto nel Golfo del Bengala, emerso dalle acque negli ultimi 20 anni, vulnerabile a cicloni e cambiamenti climatici, ma sul quale Dacca intende trasferire fino a 100.000 Rohingya.

Per i profughi, le alternative sono poche: il rimpatrio nello Stato del Rakhine è impossibile, per ora; la vita nei campi sovraffollati del Bangladesh, un vero e proprio stallo, senza prospettive; il trasferimento a Bashar char, un confinamento. Rimangono i tentativi di fuga: ieri le Nazioni Uniti hanno lanciato un appello urgente per recuperare una barca nel mare delle Andamane. A bordo, decine di Rohingya, alcuni dei quali morti, gli altri senza cibo né acqua, il motore in panne. Fuggivano dai campi di Cox Bazar e Teknaf, alla ricerca di un’altra casa.