Una raffica di sentenze in Myanmar sono state l’ennesimo schiaffo al partito di Aung San Suu Kyi e alla sua leader che si è vista comminare altri tre anni di prigione, una pena che porta il complesso degli anni da scontare in carcere a 23 in una dozzina di casi che non hanno ancora terminato il suo calvario giudiziario. La notizia è stata diffusa dall’Associated Press e si basa su informazioni confidenziali. Con lei sono stati condannati due suoi ex ministri delle Finanze, Kyaw Win e U Soe Win, il vice U Set Aung e l’economista australiano Sean Turnell, già consigliere economico del Governo della Lega nazionale per la democrazia (Nld), arrestato dalla giunta 5 giorni dopo il golpe del 1 febbraio 2021 che ha chiuso la breve parentesi democratica del Paese.

TURNELL, condannato come Suu Kyi a tre anni, è stato accusato – come la Lady – di aver violato la legge sui segreti di Stato del Myanmar e rischiava una pena massima di 14 anni di reclusione. Non ha nemmeno potuto avere il conforto di un funzionario dell’ambasciata australiana, che non è riuscita ad ottenerne l’espulsione. I dettagli esatti dei presunti reati non sono stati resi pubblici (la stampa di regime non fa nemmeno menzione del processo) anche se la televisione di Stato ha affermato l’anno scorso che Turnell aveva accesso a «informazioni finanziarie segrete dello Stato» e aveva cercato di fuggire dal Paese. Rischia ora anche una condanna per violazione delle leggi sull’immigrazione. Quanto a Suu Kyi, 23 anni di prigione equivalgono, fanno notare gli osservatori, a una condanna all’ergastolo e non è escluso che ci saranno altri processi e altre condanne a intervalli, come è stato finora, di qualche mese o settimana.

Su un altro fronte va invece segnalato il rapporto di Amnesty International pubblicato ieri (Atrocità social: Meta e il diritto dei rohingya a una riparazione) che denuncia come gli algoritmi di Facebook, la piattaforma di cui è proprietaria l’azienda Meta, abbiano contribuito ai crimini perpetrati nel 2017 dalle forze armate birmane contro i Rohingya, minoranza musulmana dello stato settentrionale del Rakhine da cui è stata sostanzialmente espulsa. Il rapporto è basato in parte sui Facebook Papers, una serie di documenti interni resi pubblici dalla whistleblower Frances Haugen, informatica americana. Secondo la Commissione delle Nazioni unite per l’accertamento dei fatti, «il ruolo dei social media è stato importante» nelle atrocità commesse in Myanmar contro i rohingya e Meta (la casa madre di Facebook, Instagram, WhatsApp e Messenger) non avrebbe sorvegliato adeguatamente.

«IN UN POST condiviso oltre 1000 volte – è uno degli esempi nel rapporto – un difensore dei diritti umani dei rohingya era stato descritto come traditore della nazione e minacciato di morte. In uno dei commenti, si leggeva: Questo è un musulmano. I musulmani sono cani che devono essere uccisi. In un altro: Non lasciamolo vivo. Eliminiamo tutta la sua razza. Il tempo sta scadendo». Due richieste di risarcimento sono state già presentate negli Usa e nel Regno unito.