Hosni Mubarak è a Heliopolis, nella sua lussuosa residenza alla periferia del Cairo. Ieri mattina ha lasciato l’ospedale militare di Maadi, dove ha trascorso buona parte dei sei anni di detenzione. I processi che avevano messo sul banco degli imputati lui e trent’anni di dittatura si sono ormai chiusi tutti.

Quello più doloroso è il processo per l’uccisione di almeno 239 manifestanti (su un totale di 850 vittime) nei 18 giorni di rivolta, sei anni fa. Dopo l’assoluzione del 2 marzo decisa in ultimo grado dalla Corte di Cassazione, ieri è stata la volta della scarcerazione: Mubarak è un uomo libero.

Dall’ergastolo (comminato nel 2012) al colpo di spugna. Ieri la sua liberazione è passata in sordina in un paese frustrato, che piange una sollevazione soffocata dalla contro-rivoluzione del regime militare di al-Sisi. Nessuna protesta, gli egiziani sono rimasti a guardare l’ultimo chiodo infilato nella bara di Tahrir.

Resta in piedi un solo capo d’accusa contro l’ex presidente, per corruzione: giovedì il tribunale penale del Cairo ha ordinato un nuovo processo che ha come imputati anche la moglie Suzan e i figli Alaa e Gamal. Nel mirino regali ricevuti dal quotidiano governativo al-Ahram, cravatte, orologi, gioielli. A questo si è ridotta l’incredibile spinta democratica del gennaio 2011, ad un reato minore rispetto a quelli di trent’anni di dittatura.

Fuori dalle porte del lussuoso palazzo, c’è il popolo egiziano. Schiacciato dalla crisi, sempre più povero, impotente di fronte ai rigurgiti autoritari di un regime che è lo specchio del precedente, ieri non ha alzato la voce: «C’è un grande senso di apatia. La sola reazione che troverete nelle strade è qualche barzelletta su Mubarak che torna a casa – dice all’Ap Ahmed Helmy, avvocato per i diritti umani – Il suo ritorno a casa non è che un piccolissim pezzo di un puzzle molto più grande».

Un altro pezzo del puzzle sono i protagonisti di Tahrir e delle successive ondate di proteste, attivisti, giornalisti, semplici cittadini, dietro le sbarre o scomparsi negli inquietanti ingranaggi della macchina della repressione: alcuni rischiano la pena di morte, altri non hanno nemmeno avuto l’occasione di presentarsi di fronte ad una corte.

Il messaggio è chiaro: gli unici criminali sono i manifestanti, chi si solleva contro il regime. La Corte di Cassazione non ha assolto solo Mubarak, ha assolto Al-Sisi e i suoi servizi di sicurezza, l’esercito e la polizia. Agli egiziani lo si dice chiaramente: nessuno sarà punito per stragi di civili, corruzione, repressione.

Lo sanno bene gli studenti universitari che dopo il golpe hanno resistito al nuovo potere. Molti appartenenti ai Fratelli Musulmani, tanti altri a gruppi di sinistra o fazioni liberali. A dare i numeri della repressione e del conseguente annichilimento della spinta politica delle giovani generazioni è l’Association for freedom of thought and expression: dal 2013 al 2016, 2.297 studenti hanno subito punizioni per il loro attivismo. Di questi 1.181 sono stati arrestati, 65 sono sotto processo di fronte a corti militari, 21 sono stati uccisi. E 626 sono stati cacciati dalle università.

Lo sa bene anche Shawkan, nome d’arte del fotoreporter Mahmoud Abu Zeid, incarcerato nell’agosto 2013 mentre copriva il massacro di Rabia (oltre 800 sostenitori dei Fratelli Musulmani uccisi dalle forze di sicurezza): il processo di massa con altri 738 imputati è stato ancora rinviato, stavolta all’8 aprile.

Come lo sa Alaa Abdel Fattah, attivista simbolo di Tahrir, condannato a 5 anni per aver violato la legge anti-proteste del generale al-Sisi.