È la «strada dell’Isis» che oggi conduce a Mosul. L’ha costruita lo Stato islamico negli anni, apparentemente interminabili, dell’occupazione della seconda città d’Iraq. La prese in 48 ore, era l’inizio di giugno del 2014. Dall’iconica moschea al-Nouri, il «califfo» Abu Bakr al-Baghdadi poche settimane dopo si presentò al mondo, un Rolex al polso, un messaggio asfissiante per fedelissimi e popolo occupato.
Mosul è stata liberata tre anni dopo, nell’estate del 2017, dopo una battaglia lunghissima, efferata, di bombardamenti aerei americani e guerriglia urbana, di migliaia di corpi seppelliti per mesi sotto le macerie, percettibili dall’odore di casuali fosse comuni. Il cuore dello scontro fu la zona ovest: lì si erano asseragliati gli islamisti, con una resistenza basata sulla più disumana delle strategie, civili usati come scudi umani.
Cinque anni dopo la ricostruzione, fisica e morale, procede a rilento. Mancano i fondi. La «strada dell’Isis» è incorniciata da palazzi in rovina, scorrono veloci visti dal finestrino. Non si capisce nemmeno come facciano a stare in piedi, crivellati dai colpi di artiglieria, sventrati dalle bombe, i tetti collassati sui primi piani.

L’ENTRATA A MOSUL finisce per essere un viaggio nel grigio. Lo stesso grigio che è protagonista, più che semplice sfondo, alle fotografie di Begoña Zubero. Originaria di Bilbao, classe 1962, ha studiato e lavorato in Spagna, Stati uniti, Italia, concentrando la sua visione tra spazi urbani e nature morte.
Fino al 22 maggio prossimo la sua mostra Neeev. Non è esotico, è vitale è esposta al Museo di Roma in Trastevere, promossa da Roma Culture, Sovrintendenza capitolina ai beni culturali e ambasciata di Spagna in Italia. Diciotto fotografie, ritratti di Mosul raccolti nel dicembre 2018, testimoni della devastazione e di una timida luce in fondo al tunnel.

UNA LUCE PRESENTE in ogni scatto, che seppur scarti di registro e linguaggio, dal grandangolo al teleobiettivo, mantiene fissa una presenza. Un colore (il rosso di una busta di plastica o il carminio del vestito di una donna), l’esistenza umana, il trascinarsi di un carretto, tutto è avvolto da macerie e nebbia. Pare quasi stonare con l’immaginario desertico dell’ovest iracheno. Ma la nebbia è pressoché ovunque, a dare forma ai soggetti delle foto che si trasfigurano in esistenze fantasma.
L’impressione è quella di un luogo sospeso nel tempo e nello spazio, un’antica civiltà ritrovata quasi per caso, defunta per l’ovvio scorrere della storia. Così non è e ogni immagine lo ricorda con un particolare minimo o urlato. Che siano due bambine con lo zaino di scuola o uomini impegnati nel lavoro, una sedia che guarda una vetrata inondata di luce o una ruspa dormiente su un cumulo di macerie. Non è stato il tempo, ma la guerra, onnipresente nel ponte spezzato perfettamente a metà (tragica metafora del prima e del dopo), i colpi di artiglieria nell’abside di una chiesa, il cancello d’oro ritorto di una moschea. I resti di cibo lasciati dai miliziani sotto il poster di un lago alpino, una pila di scheletri di letti di fronte a un palazzo crollato.

E INFINE IL RUOLO PELOSO della comunità internazionale, che appare – asettico ma al contempo feroce – in un manifesto che sponsorizza la ricostruzione della rete idrica da parte della cooperazione allo sviluppo di Svezia. Dietro il cartello, però, c’è l’abisso.
L’obiettivo, lo spiega la stessa Zubero, è «avvicinare alla sensazione di incertezza e di dualismo di un presente avviluppato in una perversa ripetizione storica… trasmettere l’idea della capacità di sopravvivenza dell’essere umano in situazioni veramente avverse». Se la sopravvivenza non ha spazio né tempo, non ce l’ha nemmeno l’obbligata resistenza, in un mondo che ci consola chiamare «esotico» come nel nostro presente.