La miniera di carbone di Jérada, nell’omonima provincia del Marocco nord-orientale, è chiusa ufficialmente dal 1998. Ma in una regione in cui il tasso di disoccupazione è più che doppio rispetto alla media nazionale del 10% circa, i suoi cunicoli hanno continuato a rappresentare una fonte di sostentamento essenziale per chi se la sente, tra i 110 mila abitanti che conta la città di Jérada, di avventurarsi nelle viscere del sito senza alcuna misura di sicurezza, per estrarne un po’ di carbone da rivendere al mercato nero.

Sono oltre un centinaio le persone che hanno perso la vita in questo modo, secondo i dati diffusi dall’Associazione marocchina dei diritti umani (Amdh), durante vent’anni scarsi di “inutilizzo” di quella che qui chiamano non a caso la «miniera della morte». Da ultimi due ragazzi, due fratelli di 23 e 30 anni, Houcine e Jedouane, travolti dall’acqua nella stretta galleria in cui erano al lavoro, con un amico che è riuscito invece a salvarsi, lo scorso venerdì 22 dicembre.

Da quella data gli abitanti di Jérada scendono in piazza tutti i giorni per sfilare composti e indignati di fronte ai palazzi delle istituzioni, con una partecipazione sempre più alta. La protesta seguita alla morte dei due fratelli è andata del resto a innestarsi su quella che appena un paio di giorni prima aveva portato a manifestare nelle strade, contro l’aumento dei generi alimentari e la cronica mancanza di posti di lavoro, un movimento sociale trasversale e tendenzialmente apartitico, la cui traiettoria s’innesta a sua volta nell’ondata di proteste guidate dal movimento Hirak, che hanno scosso tutta la regione del Rif a più riprese, tra il novembre 2016 e il luglio di quest’anno, e in particolare la provincia di al Hoceima, prima che la durissima repressione messa in atto dal governo marocchino sortisse i suoi effetti.

Lo scorso 8 agosto è morto dopo una lunga agonia Imad Attabi, il giovane colpito da una pallottola alla testa durante le violente cariche condotte dalle forze di sicurezza contro la grande manifestazione che aveva attraversato le strade di al Hoceima il 20 luglio.

Ma anche in questo caso la scintilla iniziale era stata una morte “sul lavoro”, il lavoro che non c’è e tocca inventarselo. Né più né meno come nei fatti che in Tunisia diedero il via alle cosiddette primavere arabe. Mouhcine Fikri, la vittima, era un pescivendolo “abusivo” che cercava solo di salvare la sua merce dalla confisca da parte delle autorità.

Sono seguiti mesi di mobilitazioni con modalità non violente e social in tutti i sensi, la “questione berbera” sullo sfondo e parole d’ordine insistite sull’urgenza di creare nuove opportunità d’impiego e sviluppo per una regione storicamente depressa e marginalizzata. Secondo un modello diverso da quello del megaimpianto solare di Ain Béni Mathar, che ha avuto zero ricadute sull’economia locale.

La risposta di Rabat è stata muscolare: centinaia di attivisti legati a Hirak sono finiti in carcere con accuse pesantissime, cui sono seguite già le prime sentenze “esemplari”. Tra loro anche Nasser Zefzafi, considerato il leader del movimento, confinato in isolamento estremo nel carcere di Sbaa.

Pochi giorni dopo la morte di Attabi, il re Mohammed VI ha provato a nascondere il pugno di ferro con la tradizionale mini-amnistia della Festa del trono, liberando gli attivisti con le accuse meno gravi e la cantante Silya, che aveva messo la sua ragguardevole popolarità al servizio di Hirak. Ma la tregua, ammesso che ci sia mai stata, sembra finita.