C’è stato un tempo originario in cui l’alpinismo era fatto di cuoio, lana e ferro. Scarponi chiodati, alpenstock, il canapone largo delle corde.

La copertina di Monte Bianco, il libro di Stefano Ardito
Alla fine del Settecento e soprattutto dall’Ottocento in poi, esploratori e gentiluomini armati di povere cose e tanto, immenso, coraggio hanno esplorato le Alpi, «il parco giochi d’Europa», come dice la celeberrima definizione del britannico Leslie Stephen, padre di Virginia Woolf e Vanessa Bell. Simbolo e monumento dell’alpinismo, e dunque di una parte importante della storia dell’uomo, è il Monte Bianco, massiccio a cavallo di Francia, Italia e Svizzera, apice di granito che domina il nostro Vecchio Continente.

L’ULTIMO LIBRO di Stefano Ardito Monte Bianco, il gigante delle Alpi (Laterza, pp. 304, euro 24) racconta la storia e l’epica raccolte dai suoi versanti. Dagli chamoniards Jacques Balmat e Michel-Gabriel Paccard che arrivano in vetta per primi alle 18.23 dell’8 agosto 1786 dopo ben 26 anni di tentativi alle imprese incredibili, uniche, dell’indimenticabile Walter Bonatti e i giorni nostri.

Tante volte nei secoli gli uomini hanno attraversato le terre alte. A caccia di camosci o di cristalli, di passaggi a cavallo delle valli, ma l’alpinismo è qualcosa di totalmente diverso, unico. È il gusto di salire e di raccontarlo, poi, non soltanto di salire e basta. Il resoconto alpinistico fa parte dell’impresa tanto quanto la salita e la discesa. Parola e azione vanno di pari passo, alla ricerca di un pubblico dove un pubblico, lassù a migliaia di metri sul livello del mare e a decine di gradi sotto zero, non c’è e non può esserci.

L'alpinista Steve House sul Monte Bianco, foto Lorenzo Belfrond per Grievel
L’alpinista Steve House sul Monte Bianco, foto Lorenzo Belfrond per Grievel

Oggi, nell’era del Gps e del satellitare, si possono seguire da casa le tracce e le immagini spedite dai luoghi più impervi del pianeta. E la cronaca alpinistica è sparita dalle pagine dei grandi giornali, che cinquant’anni fa invece la ospitavano con la stessa emozione del Tour de France o del Giro.

La viralità di uno scatto sui social adesso sembra parlare più di tanti racconti. E sembra quasi che l’alpinismo sia diventato un selfie scattato in cima a una montagna.

NON È COSÌ e non lo è mai stato, naturalmente. In montagna si muore. E la montagna muore.

È notizia di questi giorni la chiusura dei rifugi sul Bianco perché è finita l’acqua (!) o lo stop delle guide alpine alle ascese in vetta per la pericolosità dei crepacci sui ghiacciai sfarinati. Cinque gradi sopra lo zero sul Monte Rosa (4634 metri) registrano la febbre del pianeta e la malattia della nostra civiltà.

TORNARE sul Bianco, ripercorrere le gesta degli uomini (e donne!) che lo hanno scalato, attraversato, esplorato, restituisce spessore alle nostre attività ormai a una dimensione (quanto tempo, quanti chilometri) e dona mistero, profondità e altezza – in verticale – alle nostre aspirazioni di esseri umani, così tanto più piccoli e più brevi dei giganti di roccia che ci guardano dall’alto e che franano e si sciolgono sotto il peso dei nostri consumi.

In cresta verso l'Aiguille du Midi, foto Ap
In cresta verso l’Aiguille du Midi, foto Ap

Le storie raccolte nel suo libro, scrive Ardito, «sono storie che hanno per protagonista l’uomo che sceglie di affrontare in modo leale la natura». Per questo possono essere apprezzate pure da chi alpinista non è o il Bianco non lo ha nemmeno mai visto, anche se oggi – per molti versi purtroppo – le funivie riescono a portare migliaia di persone in sneaker e felpa fino a un’altezza 3.466 metri, appena un chilometro e mezzo sotto la vetta.

La montagna, serafica, resiste a stento a questi assalti meccanizzati. Una montagna mai così fotografata e mai così muta. Incompresa, fondale di cartapesta che si vuole addomesticare come se non fosse fredda, pericolosa, maestosa e aliena agli umani, casa di eterne divinità.

Il Monte Bianco visto da Chamonix, foto Ap
Il Monte Bianco visto da Chamonix, foto Ap

NON ESISTE CIVILTÀ che non abbia posto gli dei in vetta ai monti. E forse proprio per la volontà di sopprimere questo genius loci selvaggio e universale il cristianesimo si è affannato a imporre croci su ogni cima alpina, ferrea bandiera religiosa contro eventuali altre credenze. Come se si dovesse trovare in cima tutto ciò che si lascia in valle. Anche quando così non è.

Chiunque abbia raggiunto la vetta di una qualsiasi montagna conosce bene quel misto di gioia per la fatica superata e il vuoto che l’imminente discesa lascerà. Si possono scalare le montagne per mesi, ma si rimane in vetta sempre per pochi minuti. Come se il traguardo fosse una parentesi nel lungo viaggio su e giù.

È in questo tempo sospeso, tra ghiacciai che crollano e scalate che furono, che si può leggere il libro di Ardito. Un modo leale per scoprire la natura. E noi stessi.