Ridotti al silenzio dalla violenza simbolica delle forze politiche che odiano i poveri e i precari che ricevono il «reddito di cittadinanza», i beneficiari stanno lentamente iniziando a prendere parola qui e lì nel paese. Da Bari a Palermo, e ieri anche a Roma in un sit-in pomeridiano al ministero del lavoro i soggetti dello stigma – bersagli di insulti pieni di disprezzo come «divanisti» o dipendenti dal «metadone di Stato» (copyright Meloni) – stanno iniziando a mostrarsi, a prendere coraggio in maniera collettiva e a raccontare le proprie storie e anche a prospettare un’evoluzione della misura alla quale il governo guidata dall’estrema destra postfascista ha dichiarato guerra.

Non sono «percettori», l’orrido neologismo che spersonalizza, nega la profondità della storia individuale e annienta la posta politica in gioco, cioè il diritto universale all’esistenza indipendentemente dal ruolo, dallo status e dal (non) lavoro che distrugge la vita di intere famiglie per generazioni. I racconti che abbiamo ascoltato in via Molise sono il frutto sofferto, e sperato, di persone che resistono ai rovesci imposti da un mercato del lavoro selvaggio, devastato dalla precarietà creata dalle leggi del «centro-sinistra» e del «centro-destra» dal 1997 a oggi. Vivono confinati nell’invisibilità sociale, dalle pieghe di una macchina che stritola, in un orizzonte che non è solo quello della privazione ma anche dal desiderio di una vita dignitosa. Emerge la sensazione che i bisogni, ce ne sono tantissimi inascoltati in questo mondo atroce, possano affermarsi quando sono collettivi.

Luciano, ad esempio, ha detto che ha richiesto il reddito perché ha smesso di lavorare in un cantiere per motivi di salute. Un altro ha sempre lavorato nel sommerso, in nero, da ambulante, e che il reddito ha fatto emergere la sua condizione, per la prima volta. Un altro, ancora, ha sottolineato che il «reddito di cittadinanza» non può prescindere da una politica pubblica sulla casa. Elemento a dir poco trascurato in quasi quattro anni di vita della misura più ambivalente che ci sia. C’era lo studente il cui Isee ha permesso di rientrare tra i rigidi paletti che escludono la metà dei «poveri assoluti» in Italia. E così è iniziata una nuova vita che gli ha permesso di non lavorare più in nero, sotto ricatto, tra gli schiavisti della ristorazione.

Al sit-in al quale ieri, in una Roma al crepuscolo, hanno partecipato numerose realtà della sinistra di base (tra gli altri Nonna Roma, Cobas, Clap, movimenti per il diritto all’abitare come Bpm e coordinamento cittadino di lotta per la casa, UP-su la testa, Cinecittà bene comune, i centri sociali Communia, Esc, La Strada e Acrobax) era inoltre chiaro un altro dato politico.

Difendere sì, e andare oltre. Se ne riparlerà a Padova, Milano e Bologna. Questi «Comitati per la difesa del reddito» non chiedono l’applicazione della legge varata dai Cinque Stelle e dalla Lega nel 2019, al tempo del «Conte 1». «È una misura limitata perché esclude più della metà dei potenziali beneficiari e contiene le cosiddette “norme antidivano” – sostengono Emiliano Viccaro e Tiziano Trobia delle Camere del lavoro autonomo e precario (Clap) – Invece di ridurla bisogna lavorare al suo ampliamento. Chiediamo molto più di questo reddito perché è necessaria una misura individuale e non su base familiare, superare il bando dei 10 anni di residenza che esclude i cittadini stranieri e alzare le soglie Isee. E poi bisogna aumentare i salari, creare politiche per la casa, una giustizia fiscale».