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Molto più che la moglie di “Pepe” Mujica

Molto più che la moglie di “Pepe” MujicaLucía Topolansky e José "Pepe" Mujica a Montevideo nel 2010 – Reuters

Storie Finiti i tempi in cui l’Uruguay si ammalava quando Argentina e Brasile starnutivano. L’ex guerrigliera Lucía Topolansky è la nuova vice-presidente del piccolo paese sudamericano. Ma l'«impasse dei governi progressisti» in America latina resta

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 16 settembre 2017

Il detto popolare secondo cui, quando Brasile e Argentina starnutiscono, l’Uruguay si ammala ha perso molta della sua efficacia. Mentre i due potenti Paesi vicini si dibattono in una crisi profonda, il piccolo Uruguay, forte della stabilità conquistata, è uscito praticamente indenne dallo scandalo di corruzione – in realtà ben poca cosa rispetto a tutto ciò che sta avvenendo in Brasile – che ha travolto il vicepresidente Raúl Sendic, figlio del fondatore del Movimento di liberazione nazionale Tupamaros, dimessosi di fronte alle accuse di appropriazione di denaro pubblico nel periodo in cui era alla guida della compagnia petrolifera statale Ancap.

A PRENDERE IL SUO POSTO è Lucía Topolansky, seconda più votata al Senato per il Frente Amplio dopo il marito ed ex presidente José “Pepe” Mujica, il quale però non ha potuto assumere la carica di vice per aver ricoperto la presidenza nella precedente legislatura. Prima donna a ricoprire tale incarico in Uruguay, Lucía Topolansky, soprannominata la Tronca, la dura, è sicuramente molto più che la moglie di Mujica, da lei conosciuto durante la sua militanza tra i guerriglieri tupamaros e sposato nel 2005 dopo una convivenza di vari anni in una piccola fattoria alla periferia di Montevideo.

Nata in una famiglia agiata della capitale – padre simpatizzante dell’ala più conservatrice del Partido Colorado (storico rivale del Partido Nacional o Blanco, prima che il Frente Amplio ponesse fine al tradizionale bipartitismo uruguayano) e madre profondamente cattolica – Lucía aveva compiuto il suo primo atto di ribellione quando era ancora al collegio, organizzando insieme alla sorella María Elia una sorta di sciopero contro i regolamenti eccessivamente rigidi imposti dalle suore del Sacre Coeur. Ma la vera ribellione l’avrebbe espressa a partire dagli anni trascorsi alla Facoltà di Architettura, frequentando le villas miseria di Montevideo e abbracciando la lotta di classe.

Lucía aderisce nel 1967, a 23 anni, al Movimiento de Liberación Nacional-Tupamaros, entrando di lì a poco in clandestinità e diventando, malgrado la giovane età, una delle donne più combattive del movimento. È lì che conosce José Mujica, il «comandante Facundo», nato invece in un quartiere operaio e rimasto orfano a 7 anni.

ARRESTATA DALLA POLIZIA NEL 1970, riesce a fuggire pochi mesi più tardi insieme ad altre recluse passando per le fognature. Ma, nuovamente catturata nel 1972, resterà in prigioni per 13 lunghissimi anni, in condizioni durissime, subendo torture fisiche e psicologiche. Finché, tornata in libertà nel 1985, non partecipa attivamente alla fondazione del Movimiento de Participación Popular (Mpp), poi confluito nel Frente Amplio (la coalizione in cui convergono molte e diverse forze politiche, dalla sinistra marxista alle diverse espressioni socialdemocratiche, liberiste e cristiano-sociali) rappresentandone l’ala più a sinistra e anche quella più votata.

Diventata senatrice nel 2005, ha conservato la carica fino ad oggi, quando ha spiccato il salto verso la vicepresidenza della Repubblica. E in molti guardano proprio a lei come prossima presidente del Paese. Di certo, la Tronca, per quanto meno carismatica, gode in un certo senso della stessa aura del marito, l’ex guerrigliero – celebrato a livello mondiale per la sua onestà, la sua generosità e la sua austerità personale – convertitosi, dopo oltre 12 anni di durissima prigionia, due dei quali passati in fondo a un pozzo, al modello di un «capitalismo dal volto umano»: un patto di cooperazione capitalista tra imprenditori e lavoratori tradottosi, secondo i critici di sinistra, in uno dei più intensi processi di concentrazione in mani straniere della terra e della produzione agricola e dell’allevamento.

SOTTO IL GOVERNO DI MUJICA, l’Uruguay ha ottenuto, indubbiamente, molti e importanti risultati: crescita costante del Pil, aumento reale dei salari e delle pensioni, riduzione del tasso di disoccupazione, diminuzione dell’indice di povertà, più una serie di leggi all’avanguardia in materia di diversità sessuale (matrimonio omosessuale), riproduzione (legalizzazione dell’aborto) e droghe (legalizzazione della marijuana). Il tutto, però, nel segno di una politica della moderazione, dell’azzeramento del conflitto sociale mediante un discorso di conciliazione tra le classi, della rinuncia a realizzare riforme strutturali – ma garantendo programmi assistenziali a favore delle fasce più deboli e adottando provvedimenti nel campo dei diritti sociali e lavorativi – e del sostegno al modello estrattivista, attraverso l’espansione dell’industria forestale (piantagioni di pino ed eucalipto e di piante di cellulosa), della monocoltura della soia (maggioritariamente transgenica) e dell’attività mineraria. Attività economiche, tutte queste, che, oltre a un enorme impatto sugli ecosistemi, provocano un’intensa concentrazione di ricchezza.

UNA POLITICA DI COMPROMESSI, insomma, che si è ulteriormente accentuata sotto l’attuale governo del moderato Tabaré Vázquez, già presidente dal 2005 al 2010, a conferma di quella «impasse dei governi progressisti» più volte denunciata negli ultimi anni. Una parabola discendente che ha reso via via più evidenti i limiti del modello neodesarrollista (ed estrattivista) seguito da tali governi, i quali, se hanno avuto il merito di adottare importanti misure a favore delle fasce più povere, non sono riusciti però a ridurre il potere di espansione del grande capitale, mettendo fortemente in crisi quel ciclo progressista inteso come forza di trasformazione orientata a promuovere cambiamenti graduali.

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